venerdì 29 settembre 2017
Parla il leggendario batterista nigeriano, sodale di Fela Kuti nell'inventare l'Afrobeat: «Ma la musica non ha colori, è e deve essere lingua universale»
Il batterista jazz Tony Allen, padre dell'Afrobeat (WikiCommons)

Il batterista jazz Tony Allen, padre dell'Afrobeat (WikiCommons)

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Domenica primo ottobre tornerà a esibirsi in Italia, al RomaEuropaFestival presso l'Auditorium Parco della Musica della capitale, il batterista nigeriano Tony Allen. Gli appassionati di pop forse già sapranno che l'artista classe '40 sarà tra i grandi ospiti del nuovo, atteso album di Jovanotti: e senza forse ricorderanno ciò che disse Brian Eno, attribuendogli il titolo di miglior batterista di tutti i tempi. Perché Tony Allen, nato a Lagos e, come molti giganti, autodidatta, è entrato nella storia del jazz moderno, soprattutto per aver creato l'Afrobeat accanto al rivoluzionario della musica africana Fela Kuti. L'Afrobeat è miscela straordinariamente fertile di jazz made in Usa e spunti artistici della tradizione africana occidentale: che si sviluppa soprattutto in big band imperniate su vocalità e percussioni, ostinati groove e la virtuosistica poliritmia di cui Allen è maestro.

Ma oltre a ciò Tony Allen, in un viaggio di diversi decenni dal suo primo gruppo Cool Cats a collaborazioni con Charlotte Gainsbourg, ha dato vita all'Afrofunk, realizzato "lp" storici quali Jealousy, Ariya o Lagos no shaking, omaggiato i padri nobili del jazz (fra i suoi capolavori un tributo ad Art Blakey) e accettato numerose sfide: la più recente andrà in scena proprio a Roma, dove lo si vedrà sul palco con Jeff Mills, artista della scena elettronica e techno di Detroit, in un duo presentato in anteprima qualche mese fa da Parigi e online.

Intanto, a due anni da Film of life, Tony Allen è tornato anche a incidere jazz nel cd The source che esce in questi giorni per la Blue Note: e che si rivela in linea con la sua storia proponendo jazz moderno e vitale, basato su ritmiche solide quanto multiformi, coi fiati (specie la tuba di Daniel Zimmermann) a screziarne il tessuto sonoro. In The source Allen regala alla storia del jazz goielli come la torrida Moody boy, la sofferta Ewajo, l'ossessiva Tony's blues e Wolf eats wolf, vero e proprio arcobaleno di suoni, ritmi, sviluppi, a firma artistica ben precisa del Tony Allen icona del jazz.

Ha registrato The source in analogico: perché?

«Perché omaggia il tempo in cui suonavo nei club di Lagos la musica di Blakey: è un ulteriore tributo ai suoi Jazz Messengers. Abbiamo inciso tutto in presa diretta, per lo più in un'unica sessione e su nastro analogico come si usava negli anni Sessanta. Ma pure missaggio e masterizzazione sono stati analogici tanto che sul disco c'è l'etichetta AAA, tutto analogico, come non si vede in giro da decenni».

Perché The source, ovvero la sorgente?

«Proprio nella misura in cui l'album guarda al mio debutto, ben prima dell'Afrobeat. Io vengo dal jazz americano tout-court, che giunse in Nigeria tramite le radio e indirizzò la mia visione. E il brano Cool Cats prende nome dal mio primo gruppo del '62».

Che cosa significa per lei improvvisare?

«È uno stato dell'anima, una comunione fra i musicisti sul palco. Si deve essere connessi fra noi, per condividere davvero la musica con la gente».

Quant'è cambiato negli anni il ruolo del batterista?

«Da più di trent'anni è al centro della musica: pensi all'hip hop, alla musica elettronica. Perciò mi diverto a suonare su stili diversi, dal pop alla techno. Con Jeff Mills non c'è nulla di programmato: io suono la batteria e lui una drum machine, interagiamo molto, e le tastiere di Jean-Philippe Dary apportano al tutto delle armonie».

A quali batteristi si è ispirato maggiormente?

«Max Roach e Art Blakey: ma soprattutto Blakey».

Quanto contano le radici africane per lei nel jazz?

«Beh, la maggior parte dei musicisti d'oggi vengono da quel continente... Anche se la musica non ha colori, è e deve essere lingua universale. E anche se c'è da dire che i giovani d'oggi si disinteressano delle radici della musica che fanno: la vivono in modo globale mescolando tutto insieme. Ieri non accadeva».

Quali grandi jazzisti africani del passato meriterebbero per lei un maggiore ricordo?

«Sicuramente Guy Warren alias Kofi Ghanaba: un vero pioniere dell'Afrojazz da percussionista, autore e interprete. Poi segnalerei esponenti della scena Highlife jazz fra Ghana e Nigeria negli anni 50/60, come E. T. Mensah, leader della band The Tempos, o Ebo Taylor, chitarrista, compositore, bandleader».

Che cosa significa "jazz" oggi per Tony Allen?

«Potrebbe essere la parola perfetta per descrivere un'esperienza musicale fuori dal tempo e dai generi. Nonché una ricerca infinita».

E l'Afrobeat cos'è nel 2017?

«Soprattutto è una musica ben più nota e ascoltata nel mondo rispetto a quando suonavo con Fela, cosa che le permette di andare ancora avanti dentro i linguaggi della contemporaneità».

Ma lei che jazz insegnerebbe ai giovani?

«Quello di Fela Kuti e del suo gruppo Africa 70. Mi piace molto, trasmettere i metodi, le tecniche, il drumming che hanno accompagnato la mia vita».

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