martedì 25 luglio 2017
La cantante torinese dal ’98 vive e lavora a Brooklyn: «I grandi mi hanno insegnato che ciò che conta è la voglia di suonare»
Roberta Gambarini, la voce italiana del jazz a New York
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«Anche in America ci sono difficoltà a sfondare, nel jazz. Però qui una donna ha più chance, non le è reso impossibile controllare la propria attività e soprattutto può farsi notare per quanto sa fare, non in relazione alle conoscenze o ai genitori. In Italia purtroppo va avanti chi viene spinto, e non si è mai liberi di gestirsi in modo indipendente». Parla chiaro Roberta Gambarini, cantante torinese classe 1972 che dopo aver studiato canto, clarinetto e pianoforte nel ’98 si è trasferita a New York e a tutt’oggi ancora vive lì, con casa a Brooklyn. Nelle ultime settimane l’artista è stata addirittura guest star fissa, col sassofonista cubano Paquito D’Rivera, della Dizzy Gillespie All Star Big Band di stanza al Blue Note newyorchese, e ora è attesa da diverse date in giro per il mondo, prima in Svizzera a Langnau da guest del quintetto di Roy Hargrove e poi nella sua prima tournée in Argentina. In patria ormai Roberta Gambarini è solo un ricordo, con trascorsi nella discografia minimi e lontani: negli Stati Uniti invece è odierna eccellenza del canto jazz, una delle pochissime artiste non americane che per due volte hanno visto un loro album candidato ai Grammy come disco dell’anno (accadde a Easy to love e So in love), e nel 2011 è stata candidata anche al Grammy come cantante dell’anno tout-court, in una lista che la affiancava a Dee Dee Bridgewater o Cassandra Wilson. Insomma, si parla di una delle più importanti voci jazz contemporanee, che ha fatto carriera negli States imparando da giganti: il sassofonista James Moody in primis, e poi Herbie Hancock, Jimmy Heath, Dave Brubeck. Per un’attività soprattutto di concerti ma anche di signori album, su tutti oltre ai due già citati Connecting spirits (basato sul canzoniere di Jimmy Heath) e You are there col grande pianista Hank Jones: dischi che, a quasi vent’anni dalla scelta della Gambarini di osare gli States, sono fra i tanti ingredienti di una fama da signora del jazz.

Quali artisti l’hanno fatta innamorare del jazz?

«Ella Fitgerald e Louis Armstrong. Sono stati i primi che ho ascoltato da bambina, dentro la ricca collezione dei miei genitori finivo sempre al loro disco insieme o a quello di Ella su Duke Ellington».

Secondo lei quali donne hanno cambiato il canto jazz?

«Soprattutto Mary Lou Williams [pianista, organista, compositrice e arrangiatrice anche per Ellington, ndr]. Poi la trombonista Melba Liston che è un po’ troppo nell’ombra, e sul versante più popolare Peggy Lee. E non si possono dimenticare la Holiday, la Vaughan, Carmen McRae, Dinah Washington, la O’Day o i songbooks con cui Ella ha portato il jazz a tutti».

«Oggi è difficile essere donna, nel jazz?

«Non c’è più la tendenza a ridurci al servizio dell’uomo, almeno nel jazz Usa: siamo alla pari». nche in America ci sono difficoltà a sfondare, nel jazz. Però qui una donna ha più chance, non le è reso impossibile controllare la propria attività e soprattutto può farsi notare per quanto sa fare, non in relazione alle conoscenze o ai genitori. In Italia purtroppo va avanti chi viene spinto, e non si è mai liberi di gestirsi in modo indipendente». Parla chiaro Roberta Gambarini, cantante torinese classe 1972 che dopo aver studiato canto, clarinetto e pianoforte nel ’98 si è trasferita a New York e a tutt’oggi ancora vive lì, con casa a Brooklyn. Nelle ultime settimane l’artista è stata addirittura guest star fissa, col sassofonista cubano Paquito D’Rivera, della Dizzy Gillespie All Star Big Band di stanza al Blue Note newyorchese, e ora è attesa da diverse date in giro per il mondo, prima in Svizzera a Langnau da guest del quintetto di Roy Hargrove e poi nella sua prima tournée in Argentina. In patria ormai Roberta Gambarini è solo un ricordo, con trascorsi nella discografia minimi e lontani: negli Stati Uniti invece è odierna eccellenza del canto jazz, una delle pochissime artiste non americane che per due volte hanno visto un loro album candidato ai Grammy come disco dell’anno (accadde a Easy to love e So in love), e nel 2011 è stata candidata anche al Grammy come cantante dell’anno tout-court, in una lista che la affiancava a Dee Dee Bridgewater o Cassandra Wilson. Insomma, si parla di una delle più importanti voci jazz contemporanee, che ha fatto carriera negli States imparando da giganti: il sassofonista James Moody in primis, e poi Herbie Hancock, Jimmy Heath, Dave Brubeck. Per un’attività soprattutto di concerti ma anche di signori album, su tutti oltre ai due già citati Connecting spirits (basato sul canzoniere di Jimmy Heath) e You are there col grande pianista Hank Jones: dischi che, a quasi vent’anni dalla scelta della Gambarini di osare gli States, sono fra i tanti ingredienti di una fama da signora del jazz.

Quali artisti l’hanno fatta innamorare del jazz?

«Ella Fitgerald e Louis Armstrong. Sono stati i primi che ho ascoltato da bambina, dentro la ricca collezione dei miei genitori finivo sempre al loro disco insieme o a quello di Ella su Duke Ellington».

Secondo lei quali donne hanno cambiato il canto jazz? «Soprattutto Mary Lou Williams (pianista, organista, compositrice e arrangiatrice anche per Ellington, nda). Poi la trombonista Melba Liston che è un po’ troppo nell’ombra, e sul versante più popolare

Che cosa significa cantare jazz?

«Per esprimersi nel linguaggio dei Parker e dei Mingus bisogna osare, dunque venire in America. Il jazz non è europeo, solo qui si può studiarne la cultura per poter passare dall’imitazione a una assimilazione di feeling e spiritualità che porti a trovare il proprio posto nel mondo jazz di oggi».

Quanto conta saper suonare strumenti, per cantare?

«Il cantante jazz deve, e sottolineo “deve”, essere anche musicista: per improvvisare occorre conoscere l’armonia, il pianoforte e bisogna saper arrangiare».

Il pop-rock di oggi vi fornisce nuovi standard?

«Ultimamente si punta molto ai repertori r’n’b, al soul, al canzoniere di Stevie Wonder o Michael Jackson, alla musica sudamericana, e molti scrivono da sé. Però uno standard resta una sfida bellissima».

Che clima respira un’italiana nel jazz di New York?

«Nel ’98 era bellissimo. Conobbi Ron Carter, Curtis Fuller, Clark Terry… Oggi molti grandi non ci sono più, esistono ventenni bravissimi ma anche locali che chiudono. Non c’è più l’opportunità che ebbi io di incontrare, chiedere, imparare non solo tecnicamente ma pur umanamente. Pensi che conobbi Lionel Hampton perché pur se già in carrozzina di sera andava ancora a sentire i giovani… I grandi mi hanno insegnato che il punto è aver sempre dentro voglia di suonare: Moody era sordo da un orecchio e per sfondare passò difficoltà inimmaginabili, Hank Jones lo vidi dopo un’operazione a cuore aperto e la prima cosa che fece fu tamburellare le dita sul tavolo come esercizio…».

C’è un brano simbolo del canto jazz?

«Lush life del ’33, di Strayhorn, è forse la canzone più iconica. Ma vanno studiate tutte».

Quali dischi jazz porterebbe nelle scuole? «Ovviamente Ella & Louis, poi Kind of blue di Miles Davis e Ballads di John Coltrane. Ma bisogna ascoltare Ellington. E non dimentichiamo i nostri Enrico Rava o Renato Sellani, il mio mentore, colui che ha traghettato l’Italia dalla canzone al jazz».

E quando Roberta Gambarini tornerà ai dischi?

«Ho vari progetti ma se ne parla solo dal 2018. Però le anticipo che uno sarà con Chucho Valdés, il grande pianista e compositore cubano».

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