mercoledì 5 luglio 2017
Per il pianista che s'ispira a Peterson e Tatum «c’è il rischio che ora troppa accademia confini il genere in una nicchia. Le incursioni pop? Con Mina e Paoli ho imparato molto sulla ritmica»
Danilo Rea, il piano nobile del jazz
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Alla soglia dei sessant’anni che compirà il 9 agosto, il pianista Danilo Rea può ben permettersi di uscire per una volta dalla sua consueta, gentile ritrosia. Perché al di là di come lo considerano nel mondo (dove non a torto avvicinano il suo tocco a quello di Keith Jarrett), Rea ha vissuto in pieno la crescita del jazz in Italia dagli anni Settanta in poi, quando alle intuizioni dei padri nobili formatisi nell’era dello swing si sono aggiunti anche da noi, dentro il linguaggio nato nel 1917, i portati innovativi tipici nel mondo della modernità del jazz. E Danilo Rea c’era: tanto coinvolto prima e protagonista poi da poterci oggi regalare una sintesi, di quanto è stato ed è il jazz in Italia dal Sessantotto a oggi, dal suo debutto nel ’75 col Trio di Roma e Pietropaoli e Gatto sino al suo odierno e personalissimo osare jazz senza più alcun confine, proponendolo al piano solo su arie liriche, collaborando con Gino Paoli o azzardando col pianista classico Ramin Bahrami un duo pianistico colto-jazz addirittura su spartiti di Bach. «Il fatto è – esordisce Rea – che per fare jazz bisogna sempre cercare strade nuove, altrimenti non si fa davvero jazz. E l’Italia, beh… Quelli della mia generazione sono partiti dall’imitazione dei grandi, ma in un epoca d’oro in cui al Capolinea di Milano e in certi locali romani passavano nomi giganti. Poi abbiamo provato ad aprire nuove frontiere partendo dalla loro ortodossia senza dimenticare la lezione di Sonny Rollins, quella cioè per cui se scordi la melodia non si capisce nessuna improvvisazione… Oggi il jazz è codificato, i musicisti suonano meglio ma arrivano meno, c’è molta accademia. Bisognerebbe tornare alla libertà del jazz, non scellerata ma intelligente, in continuità con la storia. La mia paura è che all’alba del primo secolo del jazz, da noi il linguaggio stia pian piano tornando nelle nicchie d’ascolto da cui l’abbiamo fatto uscire con fatica».

Rea, cosa ricorda dei suoi primi approcci al jazz?

«Intanto ricordo che la Rai di quando ero bambino faceva vedere Renato Sellani, Bruno Martino, Enrico Simonetti, grandi musicisti: Simonetti sapeva suonare con classe e raccontare la storia. Poi ricordo che all’inizio non capivo i virtuosi del piano, gente come Oscar Peterson o Art Tatum, che oggi considero il più grande di sempre. Li trovavo complicati, pensi. Poi arrivò Coltrane col suo quartetto, e lui riuscì a comunicare alla mia generazione sogni ed emozioni anche nel jazz. E con lui subito arrivò pure Bill Evans, il primo riferimento per una strada mia».

Che negli anni si è sviluppata in modi disparati…

«Perché il piano solo ti dà delle cose, un trio te ne permette altre che da solo non penseresti mai. Amo anche i due pianoforti: al di là del progetto attuale con Bahrami, ho lavorato con Brad Meldhau, Danilo Pérez, Michel Camilo, Enrico Pieranunzi… Specie con Brad anche dopo anni andiamo in territori nuovi».

E la ritmica che sognerebbe per il suo piano?

«Beh, quella di Coltrane! Ma anche Tony Williams, moderno, avanti come solista e come leader. Nella realtà con Ares Tavolazzi e David King stiamo facendo cose personali, che è poi ciò che più conta».

A cosa serve per un jazzista fare dischi pop?

«Se i cantanti ti danno libertà, cresci: il rapporto piano/voce è difficile quanto formativo, devi trovare spazio nella melodia senza prevaricare il canto. Per me Baglioni e Mina sono stati una scuola: se da Sellani ho imparato la naturalezza della semplicità, da Mina ho imparato molto sul piano ritmico».

E con Paoli, col quale continua a fare tournée?

«Gino dà libertà assoluta, accetta qualsiasi variante, e poi viene dalla generazione che conosce il grande jazz, tanto che Senza fine si può fare alla Wes Montgomery perché le sue armonie sono quelle degli standard. Come quelle di Lauzi o Tenco».

Quali nostri pezzi d’autore jazz funzionerebbero?

«Ho fatto già un disco dedicato a De André, ma mi piacerebbe rileggere Fammi andar via di Baglioni, mi commuove: lui del resto è un musicista pieno di musica, è complicato, impegnativo da suonare».

Come si trova con Ramin Bahrami e Bach?

«Venendo dal Conservatorio bene, poi Ramin ama improvvisare. A volte sono io, che devo frenare l’entusiasmo suo. Col Cd Bach is in the air facciamo il punto di un’esperienza che dal vivo continuerà, un disco per me è il punto di partenza per una ricerca che deve sempre continuare».

Come si improvvisa Bach rispettando lui e il jazz?

«Su certi contrappunti serrati è durissima. Io uso un metodo che di solito non amo, suonare leggendo la partitura e improvvisare senza perderla di vista. Bahrami è poi molto libero e, del resto, Bach ha ritmo. Molti jazzisti l’hanno già riletto. Noi non l’abbiamo riletto né toccato, abbiamo aggiunto».

Quali dischi jazz insegnerebbe nelle scuole?

«My favorite things di Coltrane, quelli di Ella Fitzgerald e Louis Armstrong insieme, e poi Miles Davis, magari i suoi Lp con Gil Evans. Miles sapeva arrivare alla libertà senza uscire dalle strutture».

E di Danilo Rea che dischi consiglierebbe?

«Io ho iniziato a farne a quarant’anni, prima non mi sentivo pronto. Oggi sono orgoglioso di Lirico, e del lavoro coi Doctor 3: siamo stati i primi al mondo a immettere nel jazz il pop di oggi. Anche Mehldau, quando lesse i Radiohead, prendeva spunto da noi».

Che cos’è il jazz oggi, nell’anno del suo centenario?

«Me lo chiedo spesso, penso rimanga fondamentalmente improvvisazione e libertà. Ma è anche un ritmo ben preciso, quello swing che ne ha caratterizzato la metrica differenziandolo subito dalla musica classica. Bisogna non dimenticarsi le basi, del jazz, semmai occorre ricordarsi che anch’esse nel tempo sono mutate ed elaborarle in maniera sempre diversa».

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