domenica 4 marzo 2018
I deficit degli anni '80, l'inflazione, la poca crescita. Anatomia del passivo
Così l'Italia si è impantanata
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Quella del debito pubblico italiano è una storia strana, perché ha un inizio molto prevedibile, poi avanza noiosamente e improvvisamente, verso il finale, si fa avventurosa. Roberto Artoni, ex commissario Consob e docente emerito di Scienza delle finanze all’Università Bocconi di Milano, qualche anno fa, prima dello della recessione, ha proposto una ricostruzione storica dell’andamento del passivo di Stato italiano dall’Unità ad oggi e ha individuato quattro grandi momenti di crescita del debito del-l’Italia rispetto al suo Prodotto interno lordo. Il primo momento di accumulo, che ha portato il rapporto tra debito e Pil al 117% nel 1897, si spiega con la caduta del Pil dovuta alla Grande Depressione di fine secolo. Il secondo e il terzo momento coincidono con le due Guerre mondiali. Questa è la parte prevedibile della storia e anche quella meno interessante, dato che tutte e tre le volte l’Italia è poi riuscita, con l’aiuto di condoni e inflazionoe, a riportare sotto controllo i suoi conti pubblici.

La parte avventurosa è il quarto momento di accumulo del debito pubblico, una fase che inizia nel 1974 con un debito al 54,5% del Pil e si chiude nel 1994 con un rapporto tra debito e Pil al 124,3%. Ciò che è successo in quel ventennio, conclude Artoni, «è il problema veramente aperto». È un problema aperto a livello teorico ma anche pratico: a differenza delle altre volte, l’Italia non è mai riuscita a riassorbire il debito accumulato in quei vent’anni. Ci ha profrontarsi vato e con significativi sforzi è stata capace – unica in Europa – a chiudere in attivo, al netto degli interessi, 22 bilanci pubblici su 23 tra il 1995 e il 2017. Non è bastato. Nel 2007 il debito era tornato sotto quota 100%. La grande recessione ha però abbattuto il Prodotto interno lordo di quasi dieci punti percentuali (che ancora non abbiamo recuperato) lasciando schizzare il rapporto debito/Pil fin sopra il 130%.

Gli anni della spesa pubblica

Per capire cosa sia successo in quel ventennio occorre fare un piccolo passo indietro e tornare agli anni ‘60, quelli della fine del “miracolo economico”. Sono anni in cui tutte le democrazie occidentali si organizzano per mettere a disposizione dei cittadini un robusto welfare state con un miglioramento di servizi essenziali come la sanità e la previdenza. Questo miglioramento dei servizi ha un costo. In Europa la spesa pubblica tra il 1960 e il 1980 sale in media dal 29,5 al 46,8% del Pil. L’Italia si inserisce in questa tendenza con moderazione: da noi il rapporto tra spesa pubblica e Pil sale dal 30,1 al 40,6%.

Il Paese può permettersi questo aumento delle spese. Almeno negli anni ‘60, quando il Pil cresce attorno al 5% all’anno e l’inflazione sembra più o meno sotto controllo. Nel 1970, dopo dieci anni sempre in deficit, il debito pubblico italiano è salito solo dal 36,9 al 41,1% del Pil. Ma è un equilibrio fragile e questo diventa evidente negli anni ‘70. È un altro decennio buono, ma più difficile, perché il Pil cresce meno, in media del 3,4% all’anno, mentre l’inflazione decolla a causa della crisi petrolifera. L’indice dei prezzi al consumo si impenna in tutto il mondo. In Italia era al 5,2% nel 1972, vola al 19% nel 1974, si mantiene attorno al 15% fino alla fine del decennio, quando risale fino a uno spaventoso 21,7%. Simili livelli di inflazione rendono però più agevole per i governi italiani, in un momento di stagnazione delle entrate, la gestione di deficit di bilancio pesanti, nell’ordine del 10% del Pil. Tanto, grazie alla spinta dell’inflazione, la poderosa crescita del Prodotto interno lordo nominale permette di cammuffare i passivi di bilancio nel rapporto debito-Pil. Nel decennio infatti c’è un’impennata iniziale causata dalla recessione, che tra il 1970 e il 1973 fa volare il rapporto debito- Pil dal 41 al 55,1%, dopodiché l’aumento è contenuto e si arriva agli inizi degli anni ‘80 con un debito al 59,5% del Pil.



Il "divorzio" tra il Tesoro e la Banca d'Italia

Tra il 1975 e il 1981 l’Italia pagava sul suo debito pubblico interessi in media di 10 punti percentuali inferiori all’inflazione. Oggi siamo abituati all’idea di titoli di Stato che pagano tassi negativi (anche se i risparmiatori, naturalmente, scelgono altri investimenti), ma già allora nessuno era disposto a regalare soldi alla Repubblica. Per evitare rischi, nel 1975 governo e Banca d’Italia avevano concordato che la banca centrale avrebbe garantito il successo delle aste dei titoli di Stato, stampando moneta per comprare le obbligazioni rimaste invendute. In questo modo il costo dell’aumento del debito non si vedeva direttamente nei conti pubblici, ma veniva scaricato sulla lira, che infatti in tra il 1975 e il 1980 si svaluta del 40% rispetto al dollaro.

Nel 1981 le scelte di Ronald Reagan e Paul Volcker, rispettivamente neoeletto presidente degli Stati Uniti e governatore della Federal Reserve, fanno saltare l’equilibrio precario dei conti italiani. Washington decide che è il momento di abbattere l’inflazione, che negli Usa aveva raggiunto il 14%. La Fed procede con un drastico aumento del costo del denaro, che nel giro di sei mesi passa dal 9 al 19%. Una manovra costosa che negli Usa abbatte la crescita dei prezzi (nel 1983 l’inflazione americana è già scesa al 3,2%) ma fa salire la disoccupazione e provoca una momentanea recessione prima del boom economico. La Banca d’Italia, come tutte le altre grandi banche centrali, è costretta a inseguire la Fed e indirizzare il Paese su un cammino di “disinflazione”, fatto di aumenti del costo del denaro e riduzione del tasso di aumento dei prezzi. Senza inflazione, l’aumento del debito a spese della lira – che si svaluta di un altro 40% rispetto al dollaro soltanto durante il 1981 – diventa semplicemente impraticabile.

È in questo contesto che il ministro del Tesoro, Beniamino Andreatta, e il governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, concordano il famoso “divorzio”: la banca centrale viene liberata dall’obbligo di comprare l’invenduto alle aste dei titoli di Stato e recupera maggiore indipendenza nelle sue scelte di politica monetaria. Una scelta che incontra ostilità politica da parte di tutti i principali partiti, ma che permette alla lira di restare all’interno del Sistema monetario europeo, il meccanismo di fluttuazioni limitate tra le monete europee introdotto nel 1979 e sfociato nell’Unione monetaria.


L’esplosione del debito e la discesa impossibile

Era lecito sperare che dopo il "divorzio", privati dello sfogo monetario per i passivi di bilancio e costretti a conscoppio con investitori “veri” per collocare i titoli di Stato, i governi italiani mostrassero una maggiore disciplina fiscale. Ma non è successo. Per tutti gli anni ‘80 l’Italia continuerà a chiudere i bilanci dello Stato con saldi primari negativi, mentre le altre grandi economie europee si abituano a tenere conti in attivo. Con un’inflazione che non scende sotto il 10% fino al 1985, indebitarsi sul mercato per l’Italia è molto costoso. Il tasso medio dei nostri titoli di Stato resta sempre a doppia cifra.

È in questo decennio che il debito pubblico va fuori controllo. Era appena sotto il 60% del Pil nel 1980 ma è volato al 100% nel 1990. Nell’estate del 1992, pochi mesi dopo la firma del trattato di Maastricht che punta ad armonizzare i conti pubblici dei paesi europei, il finanziere George Soros vede nell’Italia e nel Regno Unito i punti deboli del processo di integrazione europea. Quindi mette alla prova la tenuta dello Sme con un attacco speculativo e spinge la sterlina inglese e la lira quasi fuori dal sistema, costringendo la Banca d’Italia a una svalutazione brusca del 7% della moneta nazionale. Nel 1994 il debito pubblico raggiunge il 124% del Prodotto interno lordo.

È da lì in poi che l’Italia può vantare una condotta “virtuosa” rispetto ai conti pubblici, che le permette l’ingresso nell’euro. Ma nonostante il Paese continui a chiudere ogni anno il bilancio in attivo, al netto degli interessi sul debito, la riduzione del passivo dello Stato è lenta e viene vanificata dalla grande crisi.


Questo avviene per due problemi. Uno, il più evidente, sono gli interessi. A uno Stato con un debito pubblico contenuto possono bastare un po’ crescita e un po’ di inflazione per ridurre il passivo nazionale, anche chiudendo i conti in pareggio. In Italia il debito pubblico è invece così enorme che la spesa per gli interessi nel 1995 è arrivata a costare l’11,1% del Pil. Impossibile ridurre il debito con le “manovre correttive” in una situazione simile. Ma oggi la situazione sarebbe più gestibile. Il peso degli interessi rispetto al Pil è sceso sotto il 5% dal 2003 e fin sotto al 4% nel 2016, quando ci sono costati 65,8 miliardi di euro.

E qui ci si scontra con l’altro problema: la crescita. C’è un dato difficilmente contestabile: l’Italia non si è indebitata per investire sulla crescita economica. O se lo ha fatto, lo ha fatto molto male. Il Pil italiano è cresciuto più di quello medio dei paesi fondatori dell’euro negli anni ‘60 (+5,7% contro 5,3%) e negli anni ‘70 (+3,8% contro +3,4%), per poi farsi raggiungere negli anni ‘80 (quando sia l’Italia che la zona euro crescevano del 2,4% all’anno) e quindi farsi staccare. Drammaticamente. Negli anni ‘90 il Pil italiano è cresciuto dell’1,7% all’anno contro il 2,2% medio della zona euro. Negli anni 2000 ha segnato +0,3% contro +1,1%. Se poi guardiamo agli ultimi sette anni, l’Italia ha una media di crescita zero contro il +0,9% del resto dell’area euro. Anche il +1,5% del Pil italiano del 2017, il miglior risultato dal 2010, impallidisce davanti al +2,5% della zona euro.

Senza crescita e senza lo spazio finanziario per raccogliere fondi da investire per trovarla, l’Italia si trova così inpantanata nella gigantesca palude di un debito pubblico improduttivo creato in un’altra epoca da un’altra classe politica.

Eppure, oggi poco è cambiato. A giudicare da questa campagna elettorale piena di promesse costose, ancora una volta la classe politica sembra essere poco preoccupata dall’idea che il debito pubblico continui ad aumentare e quindi a farsi più costoso. Prevalgono i programmi di breve termine, le lamentele della severità europea sui deficit pubblici e la sottaciuta convinzione che sia possibile tirare avanti e lasciare che tocchi a qualcun altro, a un certo punto, tirare fuori il Paese da questo guaio.


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