La verità sul Debito e un piano utile
martedì 6 febbraio 2018

Sul debito pubblico italiano bisogna innanzitutto fare un’operazione di verità. La coperta è corta e non ci sono ricette magiche. Abbiamo negli anni speso più di quanto abbiamo incassato (coprendo sprechi purtroppo, ma anche un welfare generoso). E per finanziare quei disavanzi del passato abbiamo dovuto e dobbiamo continuare a chiedere al mercato (una miriade di piccoli e grandi creditori) di coprire la differenza. Lo Stato in questo non è diverso da una famiglia che vive sopra le sue possibilità e per questo continua a indebitarsi.

Quei piccoli e grandi creditori (tra cui ci siamo anche noi, con i nostri risparmi e le nostre pensioni) ci consentono di farlo a tassi tutto sommato generosi (il costo medio del debito è attorno al 3,5% nel complesso ma il quantitative easing ci consente di finanziarci oggi a tassi molto più bassi).

Una parte consistente del debito (quasi tre quarti) è finanziata di fatto dentro i confini nazionali, ovvero da piccoli e grandi creditori italiani, il resto da creditori esteri. La differenza è enorme. I primi sono potenzialmente più indulgenti perché sanno che dietro la spesa ci sono beni e servizi che li riguardano. I secondi molto meno. A loro interessa solo sapere se potranno rientrare dei soldi prestati e quanto potranno guadagnarci.

Riduzioni spettacolari del debito sono praticamente impossibili o associate in realtà a fatti dolorosi come le fiammate di iperinflazione postbelliche o rivoluzioni e cambi di regime. Un rarissimo caso di condono parziale di successo è stato quello dell’Ecuador che, a differenza dell’Argentina, ha indetto un auditing pubblico del debito, individuato partite considerate inique sulle quali la reputazione dei creditori è stata indebolita.

E ha ottenuto per quelle partite dai creditori il riacquisto del debito a prezzi stracciati. In Italia l’unica partita veramente scandalosa è quella con i "furbetti della globalizzazione" che ci hanno venduto derivati sul debito assai rischiosi contrabbandati come assicurazioni. Si tratta in realtà di contratti che le banche d’affari possono liquidare a loro piacimento mettendoci sul conto decine di miliardi. La partita è nelle mani della Corte dei Conti e non si vede perché, se il Comune di Milano è riuscito a costringere le controparti a patteggiare per chiudere il giudizio su partite simili, non debba riuscirci anche lo Stato italiano.

Restano nel frattempo le promesse elettorali, tutte potenzialmente pericolosissime per i conti che, non le generazioni future ma subito noi con la ricrescita dello spread, potremmo essere costretti a saldare. La flat tax (su cui il dibattito viene tenuto aperto) apre un buco che oscilla tra i 15 e i 60 miliardi (a seconda delle visioni più o meno ottimistiche). È probabilmente irrealizzabile dal punto di vista sociale perché la cancellazione di deduzioni e detrazioni genererebbe le rivolte di molti gruppi sociali. È iniqua perché eliminerebbe molte tutele che oggi esistono per i ceti più deboli.

Dall’Europa potremmo avere notizie migliori. Il problema non è tecnico, perché idee per sfruttare la massa critica dell’Unione e ridurre il debito ce ne sono molte e alcune non richiedono nemmeno la mutualizzazione dei debiti nazionali. Uno di questi progetti – il piano P.A.D.R.E. (Politically Acceptable Debt Restructuring for the Eurozone, cioè l’ipotesi di una ristrutturazione politicamente sostenibile del debito dell’Eurozona), elaborato da Charles Wyplosz – ha dato corpo a uno dei punti dell’appello lanciato su "Avvenire" da più di 350 economisti per "salvare la Ue" prima dell’avvento del quantitative easing.

Esso prevede che la Bce possa riacquistare il debito sopra il 60% del Pil dei Paesi membri, trasformandolo in titoli perpetui a tasso zero ripagati nel tempo con le risorse da "signoraggio" da ciascun Stato. La saggezza proverbiale ci ha insegnato che l’unione fa la forza, ma allora a che serve un Unione che non ha intenzione di farla? La speranza di superbond europei (vari e competenti i progetti sul tappeto) è l’ultima a morire, ma per ora all’orizzonte non si vede Godot.

In mancanza di buone notizie su quel fronte, resta la via molto meno poetica (a sua volta indicata anche su queste colonne) della riqualificazione della spesa (dando priorità alle spese ad alto moltiplicatore, che si ripagano e riducono il debito) e della lotta agli sprechi. Il sentiero è stretto ma non strettissimo. Con dati vicini a quelli attuali (inflazione all’1,2%, costo medio del debito al 3,7%, avanzo primario dell’1,5%, crescita reale dell’1,7%) il rapporto debito/Pil scenderebbe lievissimamente di quasi un punto percentuale.

Con uno sforzo in più, crescita nominale (crescita reale più inflazione) del 4% e un avanzo primario al 3% scenderebbe di più di 3 punti percentuali. Scenari tecnicamente e razionalmente plausibili, ma lontanissimi da sogni, fatine e ricette magiche che piacciono tantissimo a parecchi elettori italiani.

Che in scienza, medicina ed economia amano i miraggi e poco si appassionano ai 'miracoli' che il progresso umano ci ha comunque portato migliorando enormemente le nostre condizioni di vita rispetto a quelle delle generazioni passate. Gli studi recenti delle neuroscienze sembrano dimostrare che i 'vincitori' delle opinioni politiche non sono coloro che fanno appello alla razionalità, ma chi stimola la componente più antica: fatta di emozioni, rabbie e paure. Finirà ancora una volta così? E con quali conseguenze per il debito e i conti da pagare per le generazioni presenti e future?

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