mercoledì 24 gennaio 2024
Un centro delle Nazioni Unite convertito in campo per i profughi ha preso fuoco: «Molte vittime». Nella Striscia le prime manifestazioni contro i leader di Hamas: «Siete squali di guerra»
I giudici della Corte internazionale di giustizia dell’Aja dovrebbero decidere venerdì sulle «misure urgenti» per interrompere il conflitto

I giudici della Corte internazionale di giustizia dell’Aja dovrebbero decidere venerdì sulle «misure urgenti» per interrompere il conflitto - ANSA

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Venerdì la Corte internazionale di giustizia dell’Aja si pronuncerà sulla richiesta di misure urgenti per interrompere il conflitto a Gaza. A quanto trapela non è previsto il verdetto sul riconoscimento del “genocidio”, come chiesto dal Sudafrica, su cui il tribunale potrebbe esprimersi successivamente. L’eventuale ordine di tregua non avrebbe valore vincolante, ma metterebbe Israele in una condizione ancora più difficile davanti alla comunità internazionale, mentre procede senza clamore l’inchiesta della Corte penale internazionale.

Dopo la strage di 24 soldati israeliani, l’esercito con la Stella di David ha scatenato la prevedibile rappresaglia nel giorno in cui a Gerusalemme si celebravano i 75 anni della Knesset, il Parlamento monocamerale. A tenere svegli non sono solo le sirene quando i razzi dalla Striscia vengono sparati sul territorio di Israele, anche se quasi sempre intercettati. La notte precedente gli Usa avevano attaccato milizie irachene fedeli al governo di Baghdad, mentre nel Mar Rosso sono proseguiti gli scambi di colpi tra le fregate della Marina americana e le postazioni di lancio dei miliziani Houti filoiraniani nello Yemen, che proseguono la loro campagna nel Mar Rosso incuranti dei bombardamenti mirati guidati dagli Usa. Ieri due cargo della Maersk hanno invertito la rotta temendo attacchi. Nelle stesse ore è arrivato a Gerusalemme il ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, che in agenda ha numerosi incontri per tentare di rafforzare la via diplomatica e l’assistenza umanitaria.

A Gaza un centro Onu convertito in campo per migliaia di profughi ha preso fuoco dopo che i combattimenti non hanno risparmiato neanche l’accampamento. Una fonte delle Nazioni Unite parla di «vittime in massa». Le forze israeliane hanno anche tagliato fuori i principali ospedali della parte meridionale di Gaza, al di sotto dei quali secondo Israele scorrono i tunnel dei miliziani. In risposta alle domande sul vasto incendio nel centro di accoglienza dell’Unrwa, l’agenzia umanitaria dell’Onu per i palestinesi, l’esercito israeliano ha risposto che l’area era una importante base dei militanti di Hamas. Fonti vicine al gabinetto di guerra israeliano sostengono che la brutale pressione militare su Gaza ha lo scopo di costringere Hamas ad «accettare il negoziato senza fare capricci». Ma i mediatori arabi sostengono che, al contrario, più si colpiscono indiscriminatamente i civili e più Hamas alzerà il prezzo prima del rilascio dei 136 ostaggi. Quasi 30 tra questi, in realtà, secondo l’intelligence sono morti: travolti dai combattimenti o uccisi dai secondini fondamentalisti che in qualche caso se ne sarebbero sbarazzati prima di ripiegare in fretta verso posizioni più al riparo dal tiro israeliano.

Che Hamas non goda più del vasto consenso del quale disponeva prima della guerra lo prova, dopo il duro attacco della stampa ufficiale palestinese, un doppio episodio di ieri. Nella Striscia sono state inscenate due manifestazioni contro i leader fondamentalisti, accusati di essere «squali di guerra», che hanno innescato il conflitto e prolungato le sofferenze della popolazione civile ben sapendo quale sarebbe stata la risposta di Gerusalemme. Dal confortevole riparo di Doha, in Qatar, i capi politici dell’organizzazione estremista aprono e chiudono i canali negoziali, costringendo i mediatori del Cairo (e fra gli altri i consiglieri giordani) a rivedere le offerte. La settimana scorsa Hamas aveva alzato la posta, chiedendo una tregua di 90 giorni, in cambio del rilascio degli ostaggi civili e della liberazione di migliaia di palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Gli ultimi spifferi, non di rado fatti circolare per tastare le reazioni, parlano di una controfferta israeliana di un mese. Posizioni ancora lontane, mentre l’intero quadrante mediorientale si va infiammando.

Anche ieri sono state inscenate manifestazioni in varie città di Israele per chiedere il rilascio degli ostaggi. Gruppi di donne hanno bloccato incroci e strade. La leader del partito laburista, Merav Michaeli, si è unita alla protesta con queste parole: «Ci vorrà molto tempo per abbattere la base terroristica di Hamas che Netanyahu ha permesso loro di costruire. I nostri ostaggi non hanno questo tempo. Dobbiamo fermare i combattimenti». A Gerusalemme dopo il tramonto decine di persone si sono aggiunte all’accampamento del Forum dei familiari a poca distanza dalla residenza del premier per chiedere un cessate il fuoco finalizzato al ritorno a casa di tutti gli israeliani prigionieri, «anche al prezzo della scarcerazione di tutti i palestinesi in carcere», hanno detto alcuni manifestanti. Dalla Knesset, dove è intervenuto per ricordare la nascita del Parlamento, Netanyahu li ha gelati: «Questa è una guerra per la nostra casa. Si concluderà solo dopo che avremo respinto l’aggressione e la malvagità dei nuovi nazisti». Per i manifestanti vuol dire solo una cosa: il premier è disposto a sacrificare gli ostaggi. «La vittoria sta nel diventare migliori. Migliori gli uni per gli altri, migliori come nazione. Dobbiamo fare un cambiamento», ha reagito Yair Lapid, leader dell’opposizione israeliana.

Ma sui tavoli del governo è arrivata l’ultima rilevazione del “Peace Index” dell’Università di Tel Aviv. Nonostante il calo nei sondaggi – meno del 15% degli israeliani dice di fidarsi del premier – il 94% degli ebrei e l’82% della popolazione totale di Israele pensa che le Forze di Difesa israeliane abbiano usato la giusta quantità di potenza di fuoco a Gaza. Tre quarti di tutti gli israeliani ritengono che il numero di palestinesi vittime della guerra sia giustificato, dopo il massacro di Hamas che ha brutalmente ucciso 1.200 persone il 7 ottobre e vanificato ogni percorso di cooperazione tra i due popoli, rilanciando la campagna per la distruzione di Israele.

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