giovedì 25 gennaio 2024
Il dolore di Saada, cristiana che vive nel campo profughi di Dbayeh a nord di Beirut: «Ogni giorno ricevo loro notizie. Noi vogliamo solo vivere in pace ma ora anche a Beirut abbiamo paura»
Il campo profughi palestinese di Dbayeh ospita una comunità di cristiani palestinesi e sorge a 12 chilometri a nord dalla capitale libanese Beirut

Il campo profughi palestinese di Dbayeh ospita una comunità di cristiani palestinesi e sorge a 12 chilometri a nord dalla capitale libanese Beirut - All Monitor Web

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«Voglio raccontarvi tutto, desidero che la gente conosca la storia di mia zia, anche se oggi con Facebook puoi sapere tutto in tempo reale. È infatti con i social che ho appreso che era stata uccisa insieme a mia cugina, attraverso un post pubblicato da un nipote che vive a Ramallah». Saada Ghattas ha gli occhi lucidi, si riprende come meglio può.

È la nipote di Nahida Khalil Anton, la donna rimasta vittima insieme alla figlia Samar Kamal dal fuoco di un cecchino israeliano, appena fuori dalla chiesa della Sacra Famiglia a Gaza City.

«Ci sono ancora 22 persone lì, sette delle quali sono rimaste ferite dopo l’attacco – prosegue –. Mio zio ha ancora una scheggia in corpo ed è in attesa di un intervento». Saada, ci accoglie nella sua casa-bottega, un modesto e dignitoso appartamento del campo profughi cristiano-palestinese di Dbayeh, a 12 chilometri a nord di Beirut, l’unico in tutto il Medio Oriente ad ospitare profughi cristiani palestinesi e ora anche siriani. Non ha una grande estensione, ma è ben curato, dotato di servizi, un campo di calcetto, parchi giochi per i bambini e oggi ospita 10mila cristiani. Sembra di trovarsi in un piccolo e tranquillo borgo, piuttosto che in uno dei dodici campi profughi palestinesi, diffusi in tutto il territorio del Libano, dove le condizioni di vita non sono adatte a un essere umano.

Saada e la zia Nahida sono nate proprio a Dbayeh, ma furono costrette a fuggire in Yemen nel 1982, dietro indicazione dell’Olp, dopo che Israele invase il Libano con l’operazione “Pace per la Galilea”. «Successivamente, io ho fatto ritorno a Beirut, mi ero appena sposata, mentre mia zia aveva preferito trasferirsi a Gaza. L’ultima volta che l’ho vista è stata nel 2000 – racconta con nostalgia la donna – quando è tornata per far visita alla madre, rientrando poi nella Striscia dal valico egiziano di Rafah».

A Gaza City lei e la sua famiglia vivevano bene, lavoravano e si sentivano al sicuro, soprattutto perché abitavano in un bell’appartamento vicino alla chiesa e svolgevano del volontariato, prendendosi cura degli anziani e dei disabili. Erano “figlie” della Chiesa – prosegue –. Non avevano alcun rapporto con Hamas ed è per questo che non capisco e non accetto il fatto che siano state uccise. Oggi i miei cugini continuano a informarmi direttamente sul posto degli sviluppi della guerra, mentre anche qui a Beirut ora temiamo un allargamento del conflitto. Vogliamo solo vivere in pace».

Si interrompe per mostrarci le foto, inviatele dal cugino, del palazzo dal quale si presume abbiano sparato i tiratori scelti. «Vedete? Erano civili innocenti, e se anche io sono cristiana, non credo che riuscirò a perdonare i responsabili». La donna, che oggi ha poco più di 60 anni, vorrebbe “tornare” in quella che considera la sua terra, la Palestina, pur non essendo mai stata lì prima. Lavorava come segretaria per un’associazione, ma dal momento che non potrà godere di una pensione, ha dovuto aprire un piccolo mini market per riuscire ad andare avanti. In Libano i profughi mantengono questo status fino alla morte, non hanno la possibilità di accedere legalmente alle 72 professioni esercitate nel Paese, non godono dei diritti civili, i bambini non possono frequentare le scuole statali e gli anziani non hanno diritto alla pensione.

«Le leggi dello Stato sono molto restrittive e non lo prevedono – spiega l’ingegnere Naji Dawali, membro del Comitato di coordinamento popolare di tutti i campi profughi palestinesi del Paese e segretario del Comitato del campo di Shatila a Beirut – e se anche ormai da anni esiste la Commissione di dialogo Libano-Palestina, istituita proprio per affrontare gli annosi problemi dei profughi, fra cui il diritto al lavoro e alla pensione, non si è riusciti a fare alcun passo avanti e la situazione dei palestinesi in territorio libanese è rimasta immutata. La maggior parte dei campi è sovraffollata, ai palestinesi si sono aggiunti gli sfollati siriani, rendendo completamente insufficienti quei pochi servizi di cui disponevamo. Per fare un esempio, a Shatila, dove oggi sono presenti 25mila persone, solo dallo scorso anno l’Unrwa, l'Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione dei rifugiati palestinesi in Medio Oriente, sta provvedendo a sistemare la rete fognaria, anche se c’è ancora molto lavoro da fare, come potete vedere».

Ed è sempre l’Agenzia Onu ad occuparsi dell’istruzione dei bambini in età scolastica. Nel caso in cui potessero permettersi di proseguire gli studi e frequentare le università, sarebbero liberi di farlo pagando una regolare retta. «I palestinesi perseguono il sogno di tornare in Palestina – conclude Dawali – ed è per questa ragione che si ostinano a vivere nei campi».



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