giovedì 9 dicembre 2010
COMMENTA E CONDIVIDI
Combattono, loro, una buona battaglia. Ora dopo ora, ogni giorno come ogni notte, per anni e anni. Perché amano il loro figlio o la loro moglie o il loro papà in stato vegetativo, in minima coscienza, in "locked in" o con una grave o gravissima disabilità. Sono centinaia di migliaia nel nostro Paese: «Cerchiamo di vivere e di far vivere, per questo non facciamo notizia», ripetono, spesso, amaramente, ai giornalisti.Sono delusi e troppo spesso abbandonati – anche dalle istituzioni che per prime dovrebbero garantirne i diritti – eppure mai domi, né rassegnati. Addolorati nel vedere e ascoltare e leggere mille parole di chi ha scelto la morte, per se stesso o per una figlia, perché la celebra come gesto d’esemplare coraggio e suprema libertà. Soprattutto nauseati quando devono sentire definire le loro vite o quelle dei loro cari «prive di dignità», «inutili», «minori». E profondamente indignati quando leggono che «i forti», i tutelati, quasi i privilegiati, sarebbero loro.Piero, ad esempio, non ha mai voluto arrendersi, né lo farà: «Hanno ragione. Sono i disabili e i loro familiari i "forti", perché non scappano, ma affrontano. E invece proprio loro sono i deboli, quelli che fuggono». Piero vive da un bel pezzo su una carrozzella e insieme alla «distrofia muscolare che ogni giorno mi devasta i muscoli. So che un giorno lei avrà la meglio, ma io vivo la mia, degna, vita insieme ad amici e familiari».Max è rimasto dieci anni in stato vegetativo e, adesso, dieci anni dopo essersi "risvegliato", in casa ha cominciato a muovere appena qualche passo sulle sue gambe, aggrappato a stampelle particolari: «Sono strafelice di vivere. E se adesso penso che in quei dieci anni avrei potuto fare la fine di Eluana mi vengono i brividi». Max ride e scherza e soffre. Ha ripreso anche, faticosamente, a scrivere. Gira l’Italia per mostrare a tutti cos’è la dignità, la tenacia, la forza: cos’è la vita. Sua mamma, suo padre, i suoi amici gli stanno vicino da venti anni. Loro l’hanno già capito.È giusto continuare ad ascoltare la voce di Max, di Piero e di chi lotta: lo è per loro e ancor più per noi stessi. Per imparare che gli ostacoli si affrontano e scavalcano. Che siamo tutti "guerrieri" quando le cose vanno bene e assai meno quando sembrano precipitare. Che le loro vite appaiono più fragili e invece hanno una dignità molto, molto più grande (e luminosa) delle nostre.E per imparare, usando le parole di Silvie Menàrd (oncologa francese di fama mondiale, paladina della cosiddetta "dolce morte" fin quando ha avuto un cancro), quanto «l’eutanasia sia la tentazione dei sani».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: