venerdì 5 aprile 2024
L'ateneo con la più alta percentuale di studenti arabi è da sempre un simbolo di convivenza. E cerca di continuare ad esserlo. «I problemi però ci sono». Polemiche per la sospensione di 8 giovani
Arabi e ebrei fanno insieme sensibilizzazione sul dialogo nel campus

Arabi e ebrei fanno insieme sensibilizzazione sul dialogo nel campus

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«Continuiamo a imparare insieme». La scritta, in ebraico e arabo, accoglie chi entra nell’edificio principale. E si ripete lungo le pareti delle sale comuni e dei corridoi, accanto alle foto delle centinaia di rapiti del 7 ottobre, 134 dei quali sono ancora prigionieri. All’inizio delle lezioni, il 31 dicembre – con quasi due mesi di ritardo a causa dell’emergenza –, l’hanno impressa su centinaia di braccialetti di gomma distribuiti da 120 ragazzi e professori a mo’ di benvenuto. «Non è solo uno slogan. É la volontà degli studenti e dei docenti dell’Università di Haifa – afferma, Arine Salamah-Qudsi, insegnante di Letteratura inglese e responsabile della Divisione per la diversità, l’inclusione e la comunità dell’ateneo –. Lo era prima e lo è ancora». Non c’è angolo di Israele – e di Palestina – su cui il massacro di Hamas e la guerra a Gaza non abbiano proiettato la loro ombra sinistra. I campus, poi, sono un luogo sensibile come gli scontri che, dall’inizio del conflitto, stanno lacerando la comunità accademica, dagli Usa all’Italia. Quella arroccata sulle colline e affacciata sul principale porto del nord, però, non è solo un’istituzione formativa. È considerata, fin dalla sua fondazione, nel 1972, un simbolo di convivenza possibile tra israeliani e palestinesi. Il 45 per cento –, tra laurea e dottorato – dei 17mila studenti sono arabi, la più alta concentrazione del Paese e oltre il doppio rispetto allo standard. Lo sono anche 34 professori, quasi il quadruplo in proporzione della media nazionale. La sua tenuta è, dunque, una sorta di banco di prova della praticabilità di una società realmente condivisa.
Le stesse autorità accademiche sono consapevoli della portata della sfida. «Ci siamo trovati ad affrontare una crisi senza precedenti – afferma Salamah-Qudsi –. La nostra Divisione, oltretutto, era stata creata appena una settimana prima della tragedia. Abbiamo, però, deciso, fin da subito, di dare una risposta forte per tutelare la ricchezza di questo ateneo, casa di migliaia e migliaia di giovani di comunità differenti. Non solo ebrei e palestinesi, ma drusi, circassi, etiopi». Prima e dopo la riapertura sono stati realizzati incontri – virtuali e in presenza – di sensibilizzazione, gruppi in cui dar sfogo ai propri sentimenti, una linea telefonica ad hoc per segnalare eventuali problemi. «Con le varie attività abbiamo cercato di farci carico del trauma generale. Quello degli studenti ebrei dopo la terribile strage. E quello, doppio, degli studenti di origine palestinese che, oltre al dolore per i 1.200 civili assassinati, vivono anche il lutto per i civili uccisi nella Striscia. Abbiamo creato degli spazi sicuri dove la sofferenza potesse essere espressa e affrontata insieme». É stato sufficiente? «Quando cammini per il campus non si avvertono tensione e diffidenza. Può constatare lei stessa», sostiene Ilan Yavelberg portavoce dell'Università. Sulle scale e nei vialetti intorno alle facoltà c’è meno movimento del solito. Queste settimane le lezioni sono sospese per consentire le sessioni di esami. I pochi alunni rimasti si concentrano in biblioteca e nelle aule studio. Alcune decine sono radunati nel giardino intorno al bar. Quattro hanno la divisa militare e il fucile a tracolla. Sono riservisti – come altri 1.500 colleghi – e hanno l’obbligo di portare le armi fino alla convocazione. Un gruppetto di iscritti in Economia, drusi, scherzano e si scambiano gli appunti. Seduti su una panchina, Orem e Youssef, iscritti in Salute pubblica, chiacchierano mentre prendono il sole estivo. «Io sono ebreo – dice Orem – e lui è arabo. E siamo qui insieme come sempre». Tutti i presenti sostengono di non avere avuto problemi dopo il 7 ottobre e di sentirsi a proprio agio con i colleghi di qualunque comunità. Nulla sarebbe cambiato, insomma.
«Il fatto è che hanno paura ad esprimersi. Soprattutto gli studenti arabi. Temono che qualunque critica o manifestazione di solidarietà a Gaza venga interpretata come sostegno ad Hamas – afferma Asaad Ghanem, docente di Scienza politica all’Università di Haifa –. Ma le tensioni ci sono». A gennaio, il comitato disciplinare ha sospeso otto studenti con l’accusa di supporto al terrorismo per alcuni commenti sui social. I ragazzi sono stati poi riammessi fino al termine del procedimento di mediazione, tuttora in corso. «Si tratta di un precedente grave. Per la prima volta, dall’inizio di questa guerra, le Università israeliane hanno iniziato a controllare e a reprimere le opinioni manifestate da alunni e docenti fuori dal campus. Nel Paese ci sono state 350 persone fermate solo per dei commenti su Internet: solo 132 delle indagini aperte avevano elementi per arrivare a un giudizio», sostiene Jafah Farah, fondatore e direttore del centro Mossawa per la difesa dei diritti dei cittadini di origine palestinese di Israele. A preoccupare l’attivista, laureato all’Università di Haifa e, a lungo, rappresentante del movimento studentesco, è la crescente divisione tra arabi ed ebrei negli atenei. Quello di Haifa non fa eccezione. «Quando lo frequentavo c’era molta effervescenza politica. I conflitti spesso erano accesi ma franchi. Ora prevale il silenzio pubblico. Così i nodi non si affrontano. E i vari gruppi fanno vite separate». «Al di là della retorica – conclude il professor Ghanem –, l’ateneo non garantisce la piena inclusione degli arabi, come dimostra la discriminazione della lingua, nonostante i passi avanti. E la loro scarsissima presenza nello staff amministrativo. Dopo il 7 ottobre la situazione è peggiorata, come ovunque. E le contraddizioni sono diventate evidenti». «Continuiamo a imparare insieme», si legge al cancello d’uscita. Il desiderio, almeno, resiste

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