mercoledì 24 gennaio 2024
Le famiglie dei 136 israeliani rapiti a Gaza hanno montato le tende davanti alla residenza del premier a Gerusalemme «Amiamo i nostri cari più di quanto odiamo Hamas»
Le tende delle famiglie degli ostaggi davanti alla residenza del premier Netanyahu a Gerusalemme

Le tende delle famiglie degli ostaggi davanti alla residenza del premier Netanyahu a Gerusalemme - Reuters

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La sottile pioggia dell’alba dirada la foschia sui colli di Gerusalemme. Segna il termine della prima notte all’aperto dei manifestanti accampati davanti alla casa di Netanyahu. «Noi siamo qui – ripetono citando il quotidiano Haaretz – perché Bibi è all’angolo, e com’è già successo quando finisce sotto pressione, perde il controllo delle proprie bugie».

Di mezzo ci sono 136 ostaggi, i quasi 25mila morti di Gaza, e una serie di parole a cui credono sempre più in pochi. «Amiamo i nostri cari più di quanto odiamo Hamas», scrive su un cartello una donna di mezza età mentre sbuca da una tenda stringendo una tazza di caffè caldo. Anche la toponomastica sembra essersi accanita contro il capo del governo, le cui finestre si affacciano sulla via “Azza”, il nome ebraico di Gaza. L’insediamento di tende a forma di piccoli igloo argentati è qui per diradare la nebbia che avvolge il futuro degli ostaggi e quello del loro Paese. La polizia non sa cosa fare. «Si sono stabiliti davanti a un negozio, su un marciapiede privato, non sono una minaccia per la sicurezza e i negozianti non chiedono il nostro intervento», spiega un agente più loquace degli altri.

Lungo Azza Street nessuno si lamenta. A mano a mano che i caffè tirano su le serrande, il gruppo di manifestanti va crescendo. Chi passa a lasciare dei croissant caldi presi dal fornaio, chi chiede se servono coperte per la notte, chi domanda se nelle tende c’è posto per altri, per fare a turno la guardia degli striscioni, da vedetta se il premier dovesse rincasare o uscire, per pararsi tutti davanti a lui: «Non può continuare a scappare da noi», insiste Norma che i nomi dei sequestrati oramai li conosce a memoria. Sono 136, e il numero lo hanno scritto in rosso sangue davanti all’ingresso della residenza ufficiale del capo del governo.

Su questo lato della capitale il richiamo dei muezzin nella Città vecchia neanche si sente. La separazione non è fatta solo di muri e di distanze. Le manifestazioni che inizialmente promuovevano l’unità nazionale, ora hanno altri toni. E quelli più duri sono tutti contro Netanyahu. Da giorni il primo ministro è sotto assedio. Che decida di tornare nell’appartamento di Gerusalemme o nella villa di Cesarea, sulla bella costa tra Tel Aviv e Haifa, il premier non potrà sottrarsi all’assedio nonviolento degli attivisti di “Bring them home now”, anche se dal quel primo “riportateli a casa subito” sono passati più di quattro mesi. «Non ce ne andremo fino a quando gli ostaggi non saranno tornati», avverte Eli Stivi, che aspetta il ritorno del figlio Idan dal nascondiglio dove è prigioniero a Gaza.

Le proteste antigovernative che avevano scosso il Paese per tutto il 2023 erano cessate dopo la mattanza dei 1.200 civili brutalizzati da Hamas il 7 ottobre. Maggioranza e opposizione avevano di nuovo sotterrato l’ascia di guerra. Ma i sondaggi di opinione mostrano un calo di consensi per Netanyahu, e che parole come «unità», in bocca a Bibi sembrano più un escamotage per guadagnare tempo e contenere chi lo contrasta. Da sabato sera non passa giorno in cui a Tel Aviv, Haifa e Gerusalemme, non venga inscenato un corteo per chiedere nuove elezioni. Lunedì gli uscieri parlamentari, di solito inflessibili nell’espellere con le buone o con le cattive i disturbatori o i manifestanti, se ne sono stati in disparte mentre le famiglie degli ostaggi facevano scoppiare un putiferio durante la seduta della commissione Finanze. E Moshe Gafni, presidente della commissione e a capo di una delle formazioni ultraortodosse pro Netanyahu, prima ha intimato di fermare l’irruzione, poi si è coperto il volto con le mani.

Anche le conferme ai peggiori presagi oggi giocano contro il governo. Perché se all’inizio i racconti del 7 ottobre, con la sequenza di torture, stupri, sevizie e orribili mutilazioni, sono serviti anche a sostenere la rappresaglia di Israele, oggi sono un atto d’accusa contro la leadership, che ha scelto la via delle armi come unica strada. Davanti a una commissione della Knesset ieri si è presentata Aviva Siegel, catturata da Hamas e rilasciata dopo la prima tranche negoziale. Ha raccontato che «donne e uomini sono violentati nei tunnel sotto la Striscia, dove i terroristi – ha spiegato – portano vestiti da bambole per le ragazze. Le hanno trasformate nelle loro bambole, con cui possono fare quello che vogliono». Durante le prime fasi della guerra parole come queste erano non di rado adoperate come benzina sul fuoco della retorica, per corroborare le più feroci tesi guerrafondaie. Oggi sono una spina nel fianco del premier.

Al forum delle famiglie Netanyahu ha fatto sapere che «non c’è alcuna proposta concreta da parte di Hamas». Ma non gli credono più. «Se il Primo ministro decide di sacrificare gli ostaggi – hanno risposto con un comunicato –, deve dare prova di leadership e condividere onestamente la sua posizione con l’opinione pubblica israeliana».

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