lunedì 22 gennaio 2024
Dall'Honduras all'Ecuador i governi sono tentati di militarizzare la lotta al crimine organizzato, che ha catturato interi pezzi di Stato. La risposta muscolare rischia però di aumentare la violenza
In Ecuador la lotta ai narcos si intreccia con la terribile crisi politica interna

In Ecuador la lotta ai narcos si intreccia con la terribile crisi politica interna - Reuters

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El Pulgarcito. El Salvador è il “Pollicino d’America”: un Paese minuscolo in un Continente di giganti. Eppure, il voto a cui, fra due settimane, saranno chiamati i suoi abitanti – meno di un centesimo della popolazione latinoamericana –, è la chiave per decifrare le contraddizioni che attraversano l’immenso spazio compreso tra il Rio Bravo e la Terra del Fuoco. In particolare, quelle che scorrono in profondità sotto la sua pelle sottile. Non solo perché le presidenziali salvadoregne aprono una maratona elettorale che vedrà alle urne altre cinque nazioni della regione per designare il proprio leader: Panama (5 maggio), Repubblica Domenicana (19 maggio), Messico (2 giugno), Uruguay ( 27 ottobre), e Venezuela (seconda metà dell’anno anche se la data non è stata ancora fissata), mentre Brasile e Cile rinnoveranno gli organismi locali. Il capitolo conclusivo del ciclo cominciato nel 2021 che ha ridisegnato la mappa politica in tutti gli Stati, ad eccezione della Bolivia. Ancora una volta – e questa è la principale ragione della centralità della consultazione salvadoregna -, il Pulgarcito è crocevia di direttrici di portata continentale se non globale. Proprio come durante il conflitto civile degli anni Ottanta, scacchiera cruciale nel “grande gioco” della Guerra fredda. Stavolta non si misurano le forze delle superpotenze bensì la tenuta della democrazia latinoamericana. Minacciata, in questo inizio millennio, non dall’esterno – i golpe, più o meno eteroguidati, del Novecento – quanto da qualcosa che si annida nelle sue stesse viscere. È là, nei nodi irrisolti dal processo di democratizzazione continentale del secolo scorso – garanzia universale dei diritti civili e politici ma non di quelli sociali, negati nel modo più brutale ad ampie maggioranze e difesa a oltranza delle posizioni di rendita, anche in termini di impunità, di élite intoccabili –, che è cresciuto lo Stato parallelo, con proprie leggi – violente - e organizzazioni armate. “Secondo Stato”, lo chiama l’antropologa argentina Rita Segato, immagine in negativo di quello ufficiale, in cui una florida economia illegale – favorita dall’abbondanza di una delle materie prime più redditizie: la droga – crea patrimoni di rilevanza tali da rendere insignificanti i controlli istituzionali. Crimine organizzato o narcos è il termine mediatico in voga che, però, rischia di confondere. Perché non è una realtà “altra” rispetto all’apparato istituzionale formale: nata al suo interno è riuscita, anno dopo anno, a catturarne interi pezzi. Per questo, la criminalità in America Latina non è una questione di sicurezza quanto di democrazia. E proprio la presunta lotta ai narcos – le varie “guerre alla droga” – finisce per divenire strumento di legittimazione di nuovi autoritarismi. El Salvador, appunto, docet. Il metodo Bukele Alla vigilia delle elezioni salvadoregne del 4 febbraio, il governo di Nayib Bukele ha rinnovato lo stato di emergenza. È la 22esima volta. Il regime di eccezione è in vigore dal marzo 2022 quando il giovane presidente, designato tre anni prima per rompere l’egemonia dei partiti tradizionali, ha inaugurato la lotta frontale alle “maras”, bande criminali responsabili della violenza fuori controllo. Il Paese è passato da un record mondiale di 103 omicidi su 100mila abitanti nel 2015 all’attuale minimo regionale di 2,25. Ci sono, però, altri numeri da considerare. In meno di due anni, in virtù delle leggi speciali, le autorità hanno recluso 72mila persone senza passare dal giudice. Con 96mila persone dietro le sbarre, El Salvador ha ora il più alto tasso di detenuti al mondo. In parallelo, Bukele ha limitato i poteri del Parlamento, vessato i media indipendenti e acquisito il controllo della magistratura con la rimozione dei togati scomodi. Alla fine ha ottenuto il via libera di un’Alta Corte “addomesticata” a candidarsi per un secondo mandato, nonostante l’esplicito divieto della Costituzione. Con un sostegno intorno al 90 per cento, è molto probabile che vinca. I cittadini sono disposti a tollerare l’autoritarismo di Bukele in cambio della liberazione dalle “maras” che troppo a lungo hanno tenuto in ostaggio le loro vite. Ma le gang sono davvero sconfitte o l’altare su cui El Pulgarcito sta sacrificando la sua precaria democrazia ha la consistenza di un cristallo? Il “populismo punitivista” dell’attuale governo salvadoregno non sembra avere smantellato il “secondo Stato”. Lo ha piuttosto riorganizzato, ridefinendone i confini. L’amministrazione di Bukele è stata segnata da vari scandali di corruzione, come hanno ampiamente rivelato le inchieste di El Faro, il più accreditato quotidiano centroamericano costretto, un anno fa, all’esilio in Costa Rica per potere lavorare. Addirittura, la gestione della spesa pubblica è stata “secretata” per legge fino al 2027. Una parte di questi fondi – ha documentato sempre El Faro – sarebbero stati utilizzati per negoziare con le maras, a inizio mandato: il pugno di ferro sarebbe la conseguenza del fallimento delle trattative. Nel lungo periodo, dunque, le bande potrebbero comparire, magari in un’altra forma. La politica contemporanea, però, vive dell’istante. Ecco perché il “metodo Bukele” sta facendo scuola nel Continente, da Quito a Buenos Aires. In guerra Nel giro di cinque anni, il tasso di omicidi ecuadoriani è cresciuto dell’800 per cento, fino a raggiungere quota 46 ogni centomila abitanti. La violenza è conseguenza dello scontro tra i principali cartelli messicani – Sinaloa e Jalisco nueva generación - per il controllo del porto di Guayaquil, rotta cruciale per esportare la coca verso Usa e Ue. Gli attacchi delle gang locali, arruolate per combattere sul campo, incluso l’assalto plateale alla tv Tc, sono, però, solo la punta dell’iceberg. La conquista di un territorio da parte dei narcos presuppone la “cattura” di porzioni, più o meno ampie, dell’apparato istituzionale. Per questo le risposte esclusivamente muscolari alla crisi non la risolvono, in compenso rischiano di provocare un bagno di sangue. È quanto accade in Messico dal 2007, quando l’allora presidente Felipe Calderón ha dichiarato la “narco-guerra”. Mezzo milione di morti ammazzati, centomila desaparecidos, quasi 390mila sfollati interni sono una sintesi eloquente di questi cruenti 17 anni nei quali il “pugno di ferro” è stato la costante dei tre governi di differente colore politico che si sono susseguiti. Inclusa quello attuale, di sinistra, di Andrés Manuel López Obrador, nonostante la promessa di cambiare una strategia inefficace. Perché la violenza continua ad aumentare. A due mesi dall’inizio dalla campagna per le presidenziali, sono stati già assassinati 12 politici. La popolarità del presidente, però, è al 50 per cento e la “delfina”, Claudia Sheinbaum, è prima nei sondaggi, con 20 punti di distacco dalla leader dell’opposizione Xóchitl Gálvez. La quale, per altro, per ridurre la violenza, ripropone la vecchia ricetta di Calderón. Paradossi della narcoguerra. Il – mal – esempio messicano, oltretutto, fa scuola. Il conservatore Daniel Naboa ha appena dichiarato in Ecuador il «conflitto interno » e ha schierato l’esercito contro i narcos al costo di un miliardo di dollari. L’ultrà Javier Milei vuol fare lo stesso in Argentina. Entrambi si sono, però, premurati di indicare come proprio modello il “duro” Bukele. Il salvadoregno ha anche ispirato la politica della progressista honduregna Xiomara Castro che ha sospeso le garanzie costituzionali in 120 comunità. In Colombia, Cile e Costa Rica, si moltiplicano i politici che cavalcano la narcoguerra per acquisire consensi. Lo slogan, insomma, è diventato l’equivalente latinoamericano dei muri anti-migranti, il cui effetto elettorale è inversamente proporzionale a quello reale. Specie in uno scenario di bassa crescita del Continente: 2,4 per cento, meno della media mondiale. Ci sono, poi, i casi limite di Buenos Aires e Caracas. Nel 2023, con un inedito +211,4 per cento, l’inflazione argentina ha scippato il primato al Venezuela, dove l’aumento dei prezzi si è fermato al 193 per cento. Una cifra sempre tragica. Negli ultimi due mesi, però, si è registrato un rallentamento. Una buona notizia per Nicolás Maduro che, a fine anno, dovrà sfidare l’agguerrita oppositrice Corina Machado per ottenere il terzo mandato. In controtendenza Il Brasile è l’eccezione che conferma la regola. Il Gigante del sud non solo sperimenta un exploit che l’ha portato a diventare la nona economia mondiale. Il presidente Luiz Inácio Lula da Silva, inoltre, privilegia il ruolo della polizia per la garanzia della sicurezza interna. Non tanto per questioni ideali bensì per sfiducia verso le forze armate, dopo il fallito assalto alle sedi delle istituzioni il 6 gennaio 2023. La grande sorpresa del 2024 viene dal Guatemala dove il liberal progressista Bernardo Arévalo è riuscito a scardinare un sistema di potere cementato sulla corruzione e a ottenere la presidenza grazie all’eccezionale mobilitazione dei cittadini. Una segnale positivo in un’America Latina in recessione democratica. 3. Continua © RIPRODUZIONE RISERVATA Dall’Honduras all’Ecuador, i governi sono tentati di militarizzare la lotta al crimine organizzato, che ha catturato interi pezzi di Stato. La risposta muscolare, però, rischia soltanto di aumentare la violenza. E diventa fonte di legittimazione di nuovi autoritarismi Prigionieri denudati dagli agenti dei reparti speciali della polizia dopo aver ripreso il controllo del carcere di Cuenca in Ecuador/ Ansa
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