mercoledì 10 marzo 2010
Il vice presidente irritato per l'annuncio sui progetti di nuovi insediamenti ebraici a Gerusalemme est. E conferma ad Abu Mazen: «Sostegno per uno Stato palestinese». Imbarazzo nel governo israeliano.
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Ha passato una vita intera a combattere, e superare, dolori familiari che hanno irrobustito l’uomo schietto e genuino che è sempre stato. Non è uno che le manda a dire, il vice presidente americano Joe Biden. Anzi spesso sfora, disseminando gaffe che i suoi 40 anni di esperienza politica rendono del tutto irrilevanti. Quando l’altro ieri si è ritrovato a Gerusalemme a incassare l’offesa sugli insediamenti (il via libera del governo israeliano a 1.600 nuove abitazioni nella parte araba della Città Santa annunciato proprio il giorno del suo arrivo), ha reagito d’istinto, pensando di mandare a monte la cena con il premier israeliano Benjamin Netanyahu e le buone intenzioni con cui era partito. Poi si è limitato a contenere la protesta in un’ora e mezza di ritardo. Ma di certo il clima a tavola non deve essere stato dei più distesi. Quando ieri è arrivato in Cisgiordania per i colloqui con la parte palestinese, teneva stretto in tasca un documento insolitamente duro nei confronti dell’alleato israeliano («Condanno la decisione del governo di procedere con la pianificazione di nuove unità abitative. La sostanza e il momento scelto per l’annuncio sono esattamente il tipo di atto che mina la fiducia di cui ora c’è bisogno»), rafforzato dalle condanne dell’Onu (Ban Ki-moon ha ribadito che «gli insediamenti sono una pratica illegale per la legge internazionale) e dell’Unione Europea (il “ministro degli Esteri” Catherine Ashton si è «associata» con un messaggio inequivocabile alla condanna dell’Onu).Probabilmente Biden ha respirato aria migliore, a Ramallah. Incontrando il presidente dell’Anp Abu Mazen e il premier Salam Fayyad ha di nuovo condannato le decisioni israeliane sugli insediamenti e ribadito l’impegno statunitense verso l’obiettivo di uno Stato palestinese, «governabile e dotato di continuità territoriale». Per parte sua, Abu Mazen non ha potuto che confermare come l’annuncio sui nuovi progetti edilizi stia «sicuramente danneggiando» il processo di pace, avvertendo che i negoziati potranno proseguire solo se Israele adempirà con i fatti «agli impegni presi del processo di pace». Biden è tornato a Washington con una valigia pesante di dubbi. Dubbi sulle intenzioni e (ancor più) sull’affidabilità del governo Netanyuahu. Come una gigantesca cartina di tornasole, l’exploit sulle nuove 1.600 abitazioni ha rivelato debolezze che preoccupano la Casa Bianca e la Comunità internazionale. Secondo i media israeliani, e i partiti dell’opposizione, quell’annuncio «improprio», partito dal ministro dell’Interno Eli Yishai (della destra religiosa Shas) proprio in coincidenza con l’arrivo di Biden, è il segnale di un malumore che il premier fatica a controllare. Netanyahu ha provato a metterci una pezza, dicendo di essere stato «sorpreso» dall’iniziativa del ministro Yishai. Lo stesso ministro Yishai ha fatto marcia indietro: chiedendo «scusa per il disagio» arrecato, spiegando che l’annuncio sui nuovi 1.600 appartamenti ha conciso solo per caso con l’arrivo del vice presidente Usa, e tuttavia ammettendo che «è senza dubbio deplorevole che sia successo durante la visita di Biden». La sostanza non cambia. Il pasticcio sugli insediamenti ha complicato il quadro di un negoziato già difficilissimo. E certamente non ha giovato ai rapporti non facili tra l’Amministrazione Obama e il governo Netanyahu. Il presidente Usa chiede, e lo fa con insistenza dal giorno del suo insediamento, il congelamento totale e illimitato dei progetti ebraici sulla terra dei palestinesi. Netanyahu ha sempre risposto picche. A fine 2009 si è limitato a concedere una moratoria di dieci mesi alle costruzioni. Provvedimento che per i palestinesi ha il sapore di una beffa: esclude, intanto, Gerusalemme Est, e anche per quanto riguardo la Cisgiordania inciampa in continue deroghe (112 nuovi appartamenti sono stati annunciato solo pochi giorni fa nell’insediamento di Beitar Ilit). Come si possa negoziare in queste condizioni è cosa che gli americani, per primi, si stanno chiedendo. Rappresentati dall’inviato speciale George Mitchell (che ha appena strappato un sì delle due parti alla ripresa dei colloqui), si sono assunti l’incarico di principali mediatori. E con le elezioni di mid term in vista, è impensabile che l’Amministrazione Obama si predisponga a un clamoroso forfait. Con buona pace di Israele. Alleato, sì, ma non solo per «prendere».
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