giovedì 11 marzo 2010
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Alle prese con un costante aumento demografico, accresciute necessità di sviluppo economico e, per effetto dei cambiamenti climatici, con una inesorabile diminuzione dell’acqua su scala globale, ora più che mai i governi della cosiddetta area Mena (Nordafrica e Medio Oriente) cercano nuove soluzioni al problema dell’approvigionamento idrico. Una situazione complessa aggravata da storiche rivalità fra Stati, lucrosi investimenti stranieri, giochi di potere per guadagnare peso politico nella regione.Con 400 milioni di abitanti, pari al 6% della popolazione mondiale, e circa 200 miliardi di metri cubi di acqua l’anno (dati della Fao), Nordafrica e Medio Oriente rappresentano la zona più sensibile alla questione acqua a livello planetario: tenendo presente che in media un milione di persone necessita di due miliardi di metri cubi di acqua l’anno, il fabbisogno idrico della popolazione nord africano-mediorientale è soddisfatto solo per un quarto. E la situazione è destinata a peggiorare. Lo scenario temuto dagli esperti di «idropolitica», nuova branca della geopolitica, prevede conflitti per il controllo dell’acqua («idroconflitti») che faranno impallidire quelli scatenati dalla ricerca spasmodica del petrolio, di cui, paradossalmente, la medesima area geografica possiede il 60% delle risorse mondiali. E si parla già di «acqua in cambio di pace».I principali fiumi contesi nell’area sono, e saranno sempre più, il Nilo, il cui bacino idrografico interessa dieci nazioni dell’Africa Orientale; il Giordano, che attraversa Libano, Siria, Israele, Territori palestinesi; il Tigri e l’Eufrate, che nascono entrambi in Turchia, attraversano il territorio siriano e si congiungono in Iraq prima di sfociare nel Golfo Persico con il nome di al-Shat el-Arab.Per i Paesi della cosiddetta Iniziativa del bacino del Nilo (Nbi, 1999, Tanzania), dieci anni di trattative e accordi non hanno ancora portato a una equa ripartizione dei diritti allo sfruttamento. Le quote vigenti sono quelle fissate 50 anni fa: secondo l’accordo siglato con il Sudan nel 1959, all’Egitto spettano ogni anno 55,5 chilometri cubi di acque provenienti dal Nilo, mentre alla controparte vanno 18,5 chilometri cubi annui. Il Nilo, però, attraversa anche Burundi, Ruanda, Tanzania, Uganda e il suo bacino include la Repubblica democratica del Congo, il Kenya, l’Etiopia e l’Eritrea, nazioni che fino ad ora hanno sfruttato poco o niente le acque del fiume, non solo per trattati di epoca coloniale, ma anche perché privi di canalizzazioni, dighe e centrali idroelettriche. Una possibilità d’investimento che non è sfuggita alla Cina: grazie al recente accordo con la società HydroCina per la costruzione di centrali idroelettriche ed eoliche finanziate, tramite prestiti pari a un miliardo di dollari, dalla cinese Import-Export Bank, l’Etiopia passerà nel giro di alcuni anni da Paese deficitario di energia a forte esportatore nel corno d’Africa. Ma dal Cairo si tiene d’occhio anche il Sudan e soprattutto il Sud Sudan, che nel gennaio 2011 voterà per l’indipendenza: non si sa ancora se il nuovo governo rispetterà gli accordi siglati da Khartum. L’Egitto e gli altri Stati nordafricani temono pure l’avanzata israeliana: Tel Aviv smentisce interessi economici nel bacino del Nilo, ma la visita del titolare degli Esteri Avigdor Lieberman in Etiopia, Kenya e Uganda (settembre 2009) non è sfuggita alla stampa araba. Armi e nuove tecnologie israeliane in cambio di energia idroelettrica etiope? Un’ipotesi che sta spingendo l’Egitto, sempre più bisognoso di acqua, a investimenti nel Corno d’Africa e in Africa Centrale. Su un altro fronte, premono per una più giusta ripartizione dei flussi di Tigri ed Eufrate Iraq e Siria, "presi per la gola" dalla Turchia con deviazioni dei corsi d’acqua a proprio favore. Divisi per decenni da nodi difficilmente districabili – le questioni transnazionali curda e baathista, i rapporti con Iran e Israele – a fine 2007 i tre Paesi hanno riallacciato relazioni diplomatiche interrotte a metà degli anni 80, ma la tensione sembra destinata a crescere.Dopo l’ennesimo rifiuto di Ankara di riconoscere i due fiumi come «internazionali» (Forum mondiale di Istanbul, marzo 2009), le posizioni si sono ulteriormente irrigidite. Da un lato, la Turchia prosegue nel mastodontico progetto di dighe e centrali idroelettriche con cui irrigherà 1,7 milioni di ettari di terre, produrrà 27 miliardi di kilowatt/ora l’anno (progetto dell’Anatolia Sud-Orientale, Gap) e sfrutterà il 70% della portata dell’Eufrate; dall’altro, la Siria, colpita da una siccità senza precedenti nell’ultimo triennio, ha intrapreso un percorso ambizioso per l’utilizzo di un miliardo di metri cubi di acque del Tigri da destinare all’irrigazione di 25mila ettari di terreno. Così Damasco diminuirebbe la propria dipendenza idrica dall’estero, pari al 75%.Estraneo a qualsiasi accordo regionale dagli anni 2000 in poi è l’Iraq, che risente dell’inquinamento delle acque a monte. L’idrodiplomazia delle Nazioni Unite sta cercando di spostare l’attenzione sul concetto di cooperazione fra nazioni, da cui potrebbero scaturire interessanti opportunità di sviluppo coordinato, ma la strada sembra ancora lunga: rimane lo scoglio della "proprietà" dei fiumi, su cui la Turchia non transige anche per motivi di peso politico regionale.
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