mercoledì 10 gennaio 2024
Dopo l'attacco in diretta alla tv "Tc", il governo Noboa ha decretato il «conflitto interno» e schierato l'esercito per «neutralizzare» 22 gruppi criminali. Dubbi sull'efficacia della repressione
L'intervento dell'esercito nel carcere del Litoral di Guayaquil dopo la scomparsa di Fito

L'intervento dell'esercito nel carcere del Litoral di Guayaquil dopo la scomparsa di Fito - Ansa

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L’attacco più “spettacolare” è stato quello alla sede dell’emittente Tc di Guayaquil, quando un commando ha fatto irruzione nello studio durante una trasmissione in diretta. Tutto l’Ecuador ha visto sui propri schermi i giovani narcos della banda prendere in ostaggio e minacciare il personale presente, con tanto di pubblico proclama: «Ecco quanto accade quando si provocano le mafie». La “conquista” di Tc – terminata due ore dopo, nella notte tra martedì e mercoledì, con un blitz della polizia, nessun ferito e l’arresto dei malviventi – è stata, però, la punta avanzata, in termini di forza simbolica, di una raffica di attacchi che hanno lasciato almeno tredici morti e sette poliziotti rapiti in tutto il Paese. A meno di tre chilometri dalla tv assediata, una gang dava l’assalto all’Università, un’altra incendiava una fila di vetture in centro mentre una folla terrorizzata cercava di fuggire. In totale sono stati ventinove gli edifici bersaglio delle bande, tra cui cinque ospedali, nella capitale economica del Paese. Ieri, a Quito, un ponte pedonale sulla Panamericana è saltato in aria, tre attentati con altrettante autobombe sono stati sventati, numerosi esercizi della zona sud sono stati saccheggiati. In sei carceri, i detenuti si sono ribellati e hanno sequestrato un centinaio di guardie. Di fronte all’ondata di caos, nelle principali città, gli uffici pubblici sono stati evacuati, i cittadini invitati a restare a casa e a fare smart working, le lezioni hanno traslocato su Internet, negozi e centri commerciali sono stati chiusi. Addirittura, a Esmeraldas, il vescovo, Antonio Crameri, ha chiesto la sospensione delle Messe, come durante il Covid.
A innescare la “reazione a catena” è stato l’annuncio del neo-eletto Daniel Noboa di voler mettere fine alla crisi di sicurezza degli ultimi anni causata dall’infiltrazione delle mafie messicane. Il suo “Plan Fénix” da 800 milioni di dollari – più 200 milioni di rifornimenti erogati dagli Usa – prevede nuove unità di intelligence, armi tattiche per le forze di sicurezze e, soprattutto, nuovi istituti di massima sicurezza, incluse le “navi-prigione” ormeggiate a 120 chilometri dalla costa dove sarebbero stati ricollati i boss. Il primo della lista era Adolfo Macías alias “Fito”, il capo di Los Choneros, braccio armato del cartello messicano di Sinaloa. Il giorno del trasferimento – domenica –, però, “Fito” si è volatilizzato. Il giorno successivo è fuggito il rivale Fabricio Colón Pico alias “Capitano Pico”, alla guida di Los Lobos, cellula locale del cartello di Jalisco nueva generación. L’imposizione dello stato di emergenza da parte del governo e del coprifuoco notturno ha innescato la risposta ferocia delle gang. Noboa, però, non ha ceduto. Anzi ha rilanciato, dichiarando il «conflitto interno». Una figura specifica del diritto internazionale umanitario che implica requisiti stringenti – scontri prolungati e organizzazioni armate strutturate – e consente il dispiegamento dell’esercito. Il presidente ha già dato il via libera a operazioni militari per “neutralizzare” ventidue gruppi criminali definiti «terroristi».
Nella stessa categoria saranno iscritti magistrati e agenti collusi. Nelle prossime settimane, inoltre, 1.500 detenuti stranieri saranno rimpatriati nelle rispettive nazioni. Misure drastiche – sostenute dal Parlamento – che destano preoccupazioni fra esperti e attivisti poiché, come la recente storia latinoamericana insegna, rischia di lasciare mano libera a abusi e atrocità. La ricetta oltretutto, già sperimentata altrove, spesso rischia di aggravare il problema invece di risolverlo. Il Messico docet. Oltre alla solidarietà bipartisan delle forze politiche all’interno, il governo ecuadoriano ha incassato quella degli altri leader della regione, indipendentemente dal colore politico. Le nazioni del Continente temono che l’effetto destabilizzande di un Ecuador trasformato in una nuova base operativa delle potenti multinazionali del narcotraffico, a cominciare dai confinanti Colombia e Perù. Proprio la vicinanza dei principali produttori mondiali di coca – insieme alla Bolivia – e lo sbocco sul Pacifico da cui esportarla, rende il Paese particolarmente appetibile agli occhi delle mafie. «Estrema preoccupazione» è stata espressa anche da Washington che ha offerto assistenza. Anche il segretario generale Onu, Antônio Guterres, si è detto «molto allarmato dal deterioramento della situazione» mentre l’alto commissario Ue, Josep Borrell, ha denunciato «l’attacco diretto alla democrazia» da parte del crimine.

Intanto, la Colombia si è detta disposta ad accogliere gli eventuali 1.500 detenuti di nazionalità colombiana che il presidente dell'Ecuador Noboa ha annunciato di voler espellere verso il loro Paese di origine per mitigare almeno in parte le tensioni esistenti nelle carceri che causano proteste e ammutinamenti. «Siamo - ha dichiarato il ministro della Giustizia colombiano Néstor Osuna - pienamente disposti a cooperare in una situazione che può avere carattere umanitario e cioè che i colombiani condannati e incarcerati in Ecuador possano pagare la loro restante pena in un carcere vicino al loro ambiente familiare». Annunciando questo provvedimento riguardante i detenuti di origine colombiana, Noboa ha chiarito che una simile iniziativa verrà presa anche per i cittadini peruviani e venezuelani in prigione in Ecuador. Osuna ha infine indicato che si tratterà di assicurarsi che le persone condannate per reati dalla giustizia ecuadoriana scontino effettivamente nel loro Paese la parte restante della pena inflitta e non vengano invece rimessi in libertà.

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