mercoledì 10 gennaio 2024
Le prigioni in America Latina sono il luogo fisico dove l’esistenza del “doppio Stato” si palesa con tutta la sua forza
Forze di sicurezza ecuadoregne pattugliano l'area attorno alla piazza principale e al palazzo presidenziale nella capitale Quito

Forze di sicurezza ecuadoregne pattugliano l'area attorno alla piazza principale e al palazzo presidenziale nella capitale Quito - Ansa

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Il carcere, naturalmente. Ancora una volta è dietro le pesanti porte di ferro dei trentasei penitenziari ecuadoriani che vanno ricercate le chiavi della crisi in atto. Se ovunque – come diceva Voltaire – le prigioni sono il termometro del grado di evoluzione di una società, in America Latina sono anche il luogo fisico dove l’esistenza del “doppio Stato” si palesa con tutta la sua forza. L’apparato istituzionale formale è solo una parte – molto spesso non preponderante – dell’equazione del potere. Elite predatorie – eredità delle colonizzazioni vecchie e nuove – ed esclusione cronica di interi pezzi di società dal godimento dai diritti di cittadinanza, sostituiti con la mera sussistenza, hanno favorito la crescita di uno Stato parallelo che scorre sotto l’apparente normalità democratica del Continente. Un sistema con proprie leggi e strumenti di autoregolazione – violenti – finanziato in primis con il denaro del traffico di cocaina, che abbonda nella regione, ma anche con il commercio di esseri umani, la prostituzione forzata, la schiavitù lavorativa. La “materia prima” non manca nelle categorie di desechables y desechados, scartabili e scartati, per parafrasare papa Francesco. Nei casi migliori – le nazioni considerate maggiormente stabili -, i due regimi scorrono fianco a fianco, pur intersecandosi in alcuni momenti. In un numero crescente di Paesi latinoamericani, però, negli ultimi decenni, il “secondo Stato” ha avviato la “cattura” del primo, pezzo a pezzo. Il caso più evidente – e più compiuto – è quello del Messico tanto da avere dato origine a una categoria della sociologia criminale: “messicanizzazione”, appunto. In America centrale, la messicanizzazione è in stadio avanzato da tempo, complice la nefasta eredità dei conflitti civili tordo-novecenteschi. Per Haiti non si può nemmeno parlare di messicanizzazione: là l’apparato istituzionale è letteralmente imploso, lasciando il Paese in una condizione di anarchia bellica in cui duecento gang si affrontano a colpi di stragi nell’attesa di un intervento internazionale che non arriva mai.

L’Ecuador è un esempio relativamente recente. Negli ultimi anni, i due principali cartelli messicani – Sinaloa e Jalisco nueva generación – hanno iniziato la conquista del porto di Guayaquil, snodo cruciale della “rotta pacifica” della droga verso Usa e Europa. La battaglia era cominciata nelle prigioni, il regno degli scartati, lasciate all’amministrazione feroce della criminalità organizzata. Chiunque sia entrato in un penitenziario latinoamericano sa che lo Stato, proclami a parte, non ha le chiavi della struttura. Come al solito, i narcos hanno l’arruolamento delle bande locali, Los Choneros e Los Lobos, in primis. L’aumento esponenziale della violenza carceraria – vedi la decapitazione di massa di 79 detenuti il 23 febbraio 2021 – era stato un segnale eloquente quanto ignorato. Da lì massacri, stupri, pizzo sono dilagati nelle strade ecuadoriane, al ritmo di ventuno omicidi al giorno. Il caos ha favorito la vittoria, alle ultime presidenziali, del multimilionario Daniel Noboa, il quale ha centrato tutta la campagna elettorale sul pugno di ferro contro il crimine. Il “metodo Bukele”, lo chiamano dal nome del presidente salvadoregno che è riuscito a ridurre la violenza delle “maras” con un mix di arresti arbitrari di massa, stato di polizia, svuotamento dei poteri del Parlamento e dei giudici. Dal suo punto di vista, la strategia ha funzionato: le bande sono sparite dalle strade, i delitti sono calati e il giovane leader si ripresenta alle urne il 4 febbraio, nonostante l’esplicito divieto costituzionale, sicuro di vincere. Il simbolo di Bukele è il “maxi-carcere” di Cecot, costruito a una settantina di chilometri da San Salvador.

Anche Naboa ha inaugurato il proprio mandato annunciato la creazione di “navi-prigione” per isolare e controllare i reclusi. Di fronte alla risposta feroce dei gruppi criminali, poi, il leader ha dichiarato il “conflitto interno”. Esattamente quando aveva fatto nel 2007 l’omologo messicano Felipe Calderón, inaugurando una spirale di violenza senza precedenti tuttora in atto. «Il prezzo da pagare per combattere le mafie è che reagiscono quando si sentono attaccate», è la risposta comune. E dice una parte di verità. Ne nasconde, però, molta altra. Quelle mafie non sono “altro” rispetto allo Stato che dice di volerle affrontare: ne hanno conquistato interi pezzi, con i quali affrontano i rivali e i loro relativi sponsor istituzionali. È sufficiente andare in un carcere per rendersene conto. Ecco perché la risposta muscolare innesca una guerra molto più devastante del previsto. La quale, oltretutto, altera l’equilibrio tra gruppi senza intaccare i fondamenti del “secondo Stato” e i suoi legami perversi con il primo. Per farlo – gli esperti non si stancano di ripeterlo – occorrerebbero riforme giudiziarie che rendano i magistrati indipendenti dalla politica e finanziarie per arginare le reti di riciclaggio da cui deriva il potere di corruzione dei narcos. Misure che, però, solleticano meno la “pancia” degli elettori.

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