giovedì 24 ottobre 2019
I capi religiosi: svolta storica. Manifestazioni-fiume nella capitale e nelle altre città
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«Killun, yani killun», Tutti, vuol dire tutti. Questo slogan, che risuona in tutte le manifestazioni che da sette giorni invadono le strade del Libano, ha scosso profondamente molti politici abituati sì ad essere aspramente criticati, ma non dal proprio “gregge”. Un’immagine surreale. Nel 2005, durante la “Rivoluzione dei cedri”, un milione di libanesi erano scesi in piazza a reclamare a gran voce il ritiro totale delle truppe siriane dal Paese, ma avevano anche incontrato l’opposizione di molti altri libanesi – principalmente sciiti – vicini a Damasco. Quattordici anni dopo, questa sfasatura confessionale è superata. E la contestazione popolare si estende oggi a Beirut come a Tripoli, a Jounieh come a Tiro, Nabatieh e Baalbek, considerate roccheforti dei partiti sciiti.

Il braccio di ferro tra l’establishment attuale e il popolo è destinato a durare ancora. La “Carta delle riforme”, presentata lunedì dal premier Saad Hariri al termine di una serrata consultazione con tutte le eterogenee componenti del suo governo, non ha sortito l’effetto positivo desiderato sulla folla. La Carta conteneva importanti idee, come la riduzione degli stipendi di ministri e deputati; la chiusura di alcuni fondi nazionali noti per essere campo dei vari clientelismi; l’attivazione del ruolo dell’ispettorato centrale e della Corte dei conti, ma anche misure difficili da attuare, come il coinvolgimento delle banche locali nella riduzione dell’enorme deficit pubblico. Soprattutto la decisione di contare solo sugli investimenti esteri rappresentava una tacita ammissione della corruzione che imperversa a tutti i livelli della pubblica amministrazione. In fondo, quella del Libano è una questione di fiducia. O di sfiducia. La popolazione non accetta che a gestire l’introduzione delle necessarie riforme sia la stessa classe politica che si è alternata al governo del Paese negli ultimi 30 anni. Una presa di coscienza tardiva, forse, ma importante. Che stiamo forse assistendo alla nascita di un nuovo Libano alla vigilia del centenario della proclamazione, nel 1920, del Grande Libano, è un fatto sottolineato da più di un analista libanese. Per un secolo, scrive Anthony Samrani, «il Libano è stato solo un guercio nel regno dei ciechi» del Medio Oriente. Per la prima volta, i libanesi reagiscono in quanto nazione e non un agglomerato di religioni. Il fallimento del sistema politico, invece di metterli gli uni contro gli altri, ha creato tra di loro una fratellanza inedita».

Ieri, importanti segnali sono arrivati dai capi religiosi cristiani, riuniti nella sede del patriarcato maronita a Bkerke. «Chiediamo al potere in carica di prendere serie e coraggiose misure per portare il Paese fuori dalla crisi attuale», ha detto il patriarca maronita Béchara Rai. Secondo il porporato, quello che il Libano sta vivendo è una «rivolta popolare storica e senza precedenti che richiede misure e atteggiamento eccezionali'. Il metropolita greco-ortodosso di Beirut è stato ancor più esplicito affermando che il «vuoto politico» è preferibile all’attuale governo.

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