Amare primavere d'Oriente in un imprevisto autunno
giovedì 24 ottobre 2019

La piazza Riad el-Solh di Beirut stracolma di giovani, anziani, cristiani, drusi, sunniti, in una protesta che dura da giorni e ha paralizzato la capitale libanese. Migliaia di arresti al Cairo nel durissimo giro di vite imposto dal presidente al-Sisi dopo che la manifestazione stava per assumere i connotati della rivolta nell’ancora più famosa Piazza Tahrir, dove nel gennaio del 2011 divampò la rivoluzione che avrebbe portato alla caduta di Hosni Mubarak e all’ascesa dei Fratelli Musulmani di Mohammed Morsi. Ma prima c’era stato il Sudan, con la sollevazione popolare che ha condotto alle defenestrazione del trentennale padre-padrone della nazione Omar al-Bashir, e la contemporanea rivolta contro l’inestirpabile potere di Abdelaziz Bouteflika in Algeria e i cento morti in cinque giorni negli scontri fra i dimostranti e la polizia in un’altra Piazza Tahrir, stavolta a Baghdad.

Il carovita, il peso crescente delle disuguaglianze non colpisce solo l’America Latina. Dietro a tutte queste proteste c’è l’aumento ingiustificato dei prezzi, la corruzione diffusa, la sensazione di vivere in una società senza speranza. Bastano pochi spiccioli, centesimi, a volte, ad appiccare l’incendio: come quella sovrattassa annunciata su WhatsApp (0,18 euro al giorno, 5 euro e e mezzo al mese) che ha acceso la rivolta libanese, o la disperazione della "generazione 10 dinari" (a tanto ammonta – più o meno 8 dollari – il salario medio giornaliero di un giovane iracheno), o il prezzo del pane triplicato in un sol colpo in Sudan, o ancora lo scandalo di servizi indegni di una nazione che si proclama moderna come l’Egitto e che viceversa naviga nella più teatrale corruzione e inefficienza.

Invano la politica ha tentato di intestarsi la protesta, come accadeva in passato: è stata prontamente allontanata. Non stupiamoci. L’eredità delle primavere arabe di otto anni fa ha lasciato sul campo molte illusioni: dalla Libia (campo di battaglia tribale, diviso fra il falco Haftar e il sempre meno autorevole al Serraj) alla Siria (in gran parte riconquistata da Assad grazie al sostegno russo e iraniano, ma di fatto un protettorato di Mosca come un tempo il Libano lo fu di Damasco e oggi prossima a un Anschluss turco sunnita nell’area abitata dai curdi) allo Yemen (tragica arena di sangue nel conflitto fra Riad e Teheran, aggravata da una catastrofe umanitaria che coinvolge 15 milioni di incolpevoli). Tre Paesi emblematici, che sono diventati il sanguinario palcoscenico dove si combattono guerre per procura i cui burattinai sono altrove.

In piazza ora si scende in prima persona, a rischio della propria incolumità per reclamare una vita migliore, degna. Lo fanno gli iracheni, i libanesi, gli egiziani, pagando spesso un prezzo altissimo. Con una novità clamorosa, sia in Libano sia in Iraq: questa volta la protesta non risparmia nemmeno il mondo sciita. Il cuneo cioè che l’Iran ha pazientemente disteso e affilato nel cuore del Vicino Oriente con la creazione di quel "corridoio sciita" che da Teheran passa per Baghdad, Deir Ezzor, Palmira, Damasco, Latakia e spinge la propria influenza fino al Bahrein e allo Yemen allungando le proprie mani in Libano grazie a Hezbollah – il Partito di Dio dello sceicco Nasrallah che domina nel sud e nella valle della Bekaa e che ha fornito migliaia di combattenti a sostegno di Damasco accanto ai Guardiani della Rivoluzione iraniani – fino al Mar Mediterraneo. A Beirut, a Sidone, a Tiro, come a Baghdad, oggi nel mirino c’è l’onnipresenza sciita e il cappio che finora Teheran ha avuto buon gioco a imporre sui governi e sull’economia libanese e irachena. Nella stessa capitale iraniana è stato represso con la forza il malcontento popolare. Una novità assoluta, che come nelle "primavere" di otto anni fa viene dal basso, ma che stavolta non abbisogna di alcuna etichetta politica. In Libano perfino l’intoccabile Nasrallah è finito insieme al premier Hariri in un lungo elenco di leader corrotti. «Politica e religione non c’entrano, siamo solo libanesi, siamo solo iracheni!», è il grido che sale all’unisono dai due Paesi. Non è ancora primavera nelle tante Tahrir punteggiate dai falò della protesta, ma forse in qualche modo sta davvero iniziando l’autunno di un certo Iran.

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