Certificare la qualità senza censurare: una sfida per l’informazione
I nuovi media cercano una via praticabile per garantire standard elevati. L’esempio francese

A fronte di una crescente domanda di informazione e di un consumo digitale che ha raggiunto picchi senza precedenti, si assiste a una paradossale crisi dell’offerta di informazione professionale e strutturata. C’entra, com’è noto, la richiesta da una parte di contenuti gratuiti e, dall’altra, il costo della fornitura di elementi affidabili e ben ricercati. Molte le disamine già formulate su un tema assolutamente cruciale per la tenuta delle democrazie oggi sotto stress. Poche però le soluzioni credibili. Proprio per questo merita qualche riflessione il recente dibattito francese, presto degenerato in polemica politica senza approfondire gli aspetti più promettenti, e in qualche misura necessari, emersi dalla proposta dell’Eliseo. Negli stati generali dell’informazione – un ampio processo di consultazioni avviato su iniziativa di Emmanuel Macron già dal 2023 – è stata richiamata l’idea di dotare i mass media di strumenti di certificazione della qualità e dell’attendibilità. Ciò non significa etichettare contenuti come “autentici” o “manipolati”, bensì identificare fonti editoriali fondate su criteri etici condivisi, per contrastare la disinformazione via Web e la perdita di fiducia nel giornalismo tradizionale. Nel corso di vari incontri, il presidente francese ha richiamato l’esempio della Journalism Trust Initiative (JTI), un sistema di valutazione internazionale ispirato a indicatori di trasparenza, buone pratiche e indipendenza giornalistica. Nata nel 2019 su proposta di Reporters sans Frontières, con contributi della European Broadcasting Union e di agenzie come France Press, JTI si è andata affermando quale strumento globale (non statale) per valorizzare i media che rispettano standard elevati nel proprio campo. Sebbene Macron abbia affermato che «non è il ruolo dello Stato dire cos’è vero o falso dato che vi sarebbe il rischio di una deriva autoritaria» e abbia insistito sulla natura «volontaria» della certificazione, in capo a organismi indipendenti di settore, una bufera ha sommerso il piano appena abbozzato. Di «minaccia alla libertà di stampa», «supervisione governativa», «tentazione orwelliana» hanno parlato esponenti dell’opposizione di centro-destra – Les Républicains e Rassemblement National – e i media del gruppo di Vincent Bolloré, contribuendo a bloccare sul nascere una potenziale iniziativa pubblica per agevolare il processo di certificazione privata.
La materia è delicatissima, intervenire in qualsiasi modo può avere conseguenze rilevanti e impreviste. La cautela è quindi d’obbligo. Eppure, qualcosa bisogna fare. E in realtà già si fa, suscitando reazioni meno intense oppure stereotipate. Si prenda il caso della multa appena inflitta dall’Unione Europea a Elon Musk in quanto proprietario del social media X. Una parte dei commenti è andata nella direzione della “solita censura” e del presunto dirigismo Ue. Vediamo meglio. Una delle tre violazioni contestate riguarda la drastica riduzione in anni recenti dell’accesso ai dati di X per la ricerca indipendente. È diventato infatti difficilissimo studiare in modo rigoroso l’uso dei bot, la circolazione della disinformazione e l’impatto degli algoritmi sul dibattito pubblico. Questo comportamento entra in diretto conflitto con il Digital Services Act (DSA), il regolamento europeo che disciplina le responsabilità delle grandi piattaforme digitali. L’articolo 40 impone alle Very Large Online Platforms (VLOPs) – categoria in cui rientra pienamente X – l’obbligo di permettere a ricercatori accreditati di visionare informazioni interne, anche non pubbliche, a condizione che siano rispettate adeguate garanzie di sicurezza e riservatezza. Lo scopo della norma è quello di consentire la valutazione dei rischi sistemici che le piattaforme possono generare per la democrazia, i diritti fondamentali, l’integrità del dibattito pubblico e i processi elettorali.
È perlomeno curioso che i nuovi media debbano sottostare a regole precise e controlli accurati, cui vi è stata un’opposizione limitata a livello politico-istituzionale europeo al momento del varo (mentre tali regole costituiscono l’ossessione delle aziende e dell’Amministrazione americane), laddove invece giornali e televisioni sono molto meno soggetti a qualsiasi forma di monitoraggio. Come dimostrano anche i recenti movimenti di proprietà nel settore italiano dei media – messa in vendita del gruppo Gedi e interessamento dell’impresa greca Antenna; acquisizioni varie di Leonardo Maria Del Vecchio –, la situazione è tutto fuorché rosea per le aziende editoriali. Ciò posto, sembrano urgenti riflessioni su come tutelare fonti di informazioni vitali per il corretto funzionamento del dibattito pubblico, nel loro ruolo di inchiesta, denuncia e pluralismo delle idee.
Invece di pensare a forme di certificazione per tutti, seppure non imposte ad alcuno, una via potrebbe essere quella di incrementare i finanziamenti pubblici, subordinandoli a rigorosi criteri di qualità valutati da organismi terzi, responsabili anche dello stabilire gli standard da raggiungere. Progetto, ovviamente, “incandescente”, da definire in modo bipartisan e in maniera estremamente meditata, ricorrendo a vari livelli di selezione indipendente dell’ente deputato alle delicatissime decisioni. Il coinvolgimento di esperti stranieri potrebbe aiutare, senza essere però sufficiente. Si avrebbe peraltro una corsa virtuosa, giacché molti media cercherebbero sostegno finanziario all’informazione professionale deontologicamente ispirata, che servirebbe pure come segnalazione al pubblico del rispetto di impegni di trasparenza. Testate che possano vivere senza alcun tipo di interferenza esterna saranno sempre preferibili, certo, ma sarebbe peggio una democrazia debole senza più “cani da guardia”. D’altra parte, il concetto classico di “servizio pubblico” incarnato da Rai, Bbc e altre emittenti fornisce esempi e moniti per un suo aggiornamento ai tempi attuali. Insomma, è il momento di porre attenzione a una situazione che non riguarda solo la complessa transizione dell’informazione verso sempre nuove tecnologie, bensì la protezione di un valore e di un diritto: quello a essere tempestivamente, efficacemente, oggettivamente e veridicamente informati su ciò che ci riguarda come cittadini e come persone.
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