Perché per la giustizia il 2026 sarà un anno pirotecnico
Fra marzo e aprile il referendum sulla riforma voluta da Nordio

L’anno che sta per cominciare sarà decisivo per le riforme istituzionali che fanno parte del programma della maggioranza di centrodestra. Non soltanto per quanto riguarda la giustizia, che ha già tagliato il traguardo della doppia approvazione di Senato e Camera secondo le modalità prescritte dall’articolo 138 della Costituzione ma che dovrà superare anche lo scoglio del referendum confermativo, non avendo incassato in Parlamento la maggioranza qualificata necessaria per evitarlo. Altri due “cavalli” sui quali l’esecutivo ha puntato molto sono l’autonomia regionale differenziata (“manifesto” leghista per eccellenza) e il premierato (modello molto caro a Giorgia Meloni e ai suoi Fratelli d’Italia). Ma con la legislatura che terminerà con ogni probabilità a primavera 2027, la partita dovrà essere giocata nel 2026. Vediamo, quindi, a che punto è il cantiere.
L’assoluta separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri, il Cavaliere Silvio Berlusconi l’aveva caldeggiata per anni. E infine è toccato al primo esecutivo di centrodestra del terzo millennio, formatosi senza la sua guida, proporla e farla approvare dal Parlamento. Ma la «madre di tutte le riforme», come l’ha definita il Guardasigilli Carlo Nordio, “papà” del disegno di legge costituzionale, non è ancora realtà. Per diventare effettiva, dovrà superare il vaglio popolare, che arriverà fra marzo e aprile dell’anno entrante attraverso il voto per il referendum confermativo, previsto in due giornate consecutive ancora da fissare.
La campagna referendaria è già partita e sta dividendo l’opinione pubblica: sul fronte del Sì sono schierati comitati che rappresentano, va da sé, le forze di centrodestra, ma anche una parte del mondo del diritto (ad esempio l’Unione delle Camere penali, alcuni giuristi di vaglia e costituzionalisti) e della società civile (come la Fondazione Einaudi); su quello del No, invece, si collocano i comitati che fanno riferimento a quasi tutte le forze di opposizione (Pd, M5s, Avs, ma non Azione di Calenda e i renziani di Italia viva) e soprattutto quello dell’Associazione nazionale magistrati (che raggruppa la gran parte delle 9.700 toghe in servizio), oltre ad associazioni, docenti di diritto costituzionale e giuristi. Schieramenti che si fronteggiano a suon di battaglie informative, dibattiti, interviste in tv in cui provano a spiegare ai cittadini elettori perché il via libera alla riforma, o la sua bocciatura, possano essere la scelta migliore per il Paese.
Ma cosa contiene il ddl costituzionale di riforma dell’ordinamento giudiziario, approvato a maggioranza dal Parlamento in quattro distinte letture (due alla Camera e due al Senato, a distanza di tre mesi una dall’altra, come prevede la Costituzione)? L’architrave del testo è la separazione assoluta (finora è consentito, per via della legge Cartabia, un solo passaggio di funzioni entro 10 anni dall’ingresso in magistratura) delle carriere tra toghe giudicanti e requirenti. Di conseguenza, si dispone la creazione di due distinti Consigli Superiori della magistratura, uno per i giudici e l’altro per i Pm, con i membri togati individuati attraverso un sorteggio “puro” fra gli appartenenti alla magistratura e quelli “laici” invece estratti dai nomi di giuristi di vaglia inclusi in un elenco stilato dal Parlamento. A entrambi i Csm, viene sottratto il vaglio del corretto comportamento dei magistrati per affidarlo a un’Alta Corte disciplinare, nuovo organo anch’esso a composizione mista (magistrati di alto rango e giuristi). Un cambiamento «storico», secondo la premier Giorgia Meloni, che nelle intenzioni del Governo potrà rafforzare la distanza dei magistrati in servizio dal cosiddetto «correntismo», ossia l’influsso sulle decisioni per nomine e carriere esercitata dalle correnti in seno all’Anm, e al contempo renderà l’operato dei giudici effettivamente “terzo” e l’amministrazione della giustizia più «trasparente, efficiente e vicina ai cittadini». E lo stesso ministro Nordio si dice convinto che la riforma non inciderà affatto sull’indipendenza e sull’autonomia dei magistrati, scolpita nella Costituzione e ribadita in premessa nel ddl, ma anzi affrancherà le toghe «dall’influenza delle correnti».
Non la pensano così i partiti di opposizione, che – oltre a lamentare che l’iter legislativo sia stato condotto «a spallate» dall’esecutivo, senza tenere in conto le loro proposte né le obiezioni di magistrati e parti sociali – ritengono che la riforma non aumenti in alcun modo l’efficienza dei processi, né affronti problemi strutturali come l’arretrato, la carenza di personale e risorse o l’organizzazione degli uffici giudiziari. E che anzi possa favorire in futuro un maggior controllo della politica sulla pubblica accusa, Ancor più tranchant è la visione dell’Associazione nazionale magistrati, che considera la riforma «punitiva e umiliante» per le toghe italiane ed è scesa in campo, come detto, formando un Comitato per il No.
Dunque, la tenzone è già nel vivo e i toni del confronto si stanno facendo taglienti. Ma a chi – sulla scorta di quanto avvenne per Matteo Renzi - suppone che il voto possa configurare un test popolare sul gradimento del Governo, la presidente del Consiglio ha già risposto con un perentorio “nulla da fare”, perché non intende in alcun modo legare la tenuta del suo esecutivo al risultato referendario, quale che sia.
Di fatto, almeno a stare ai sondaggi, per ora sarebbe in vantaggio il Sì, ma la partita di primavera è ancora tutta da giocare. Nel frattempo il centrodestra studia le prossime mosse: se infatti la riforma dovesse passare, in seno alla maggioranza si ipotizzano nuove norme restrittive in materia di custodia cautelare, iscrizione nel registro degli indagati e utilizzo delle intercettazioni. Insomma, anche nell’imminente 2026, il travagliato cantiere della Giustizia pare destinato a restare aperto.
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