Essere un medico o fare il medico. Cos'è il lavoro?

Molti giovani rifiutano l’idea di essere ridotti al proprio mestiere, ingabbiati in uno schema. Sembra una prospettiva liberante. Eppure qualcosa lascia perplessi
December 27, 2025
Essere un medico o fare il medico. Cos'è il lavoro?
/Foto Icp
Qualche tempo fa, a un convegno, ascoltai con grande interesse una ragazza di vent’anni che raccontava di sé. Si discuteva di come i giovani vedessero il futuro e lei, brillante studentessa di medicina, disse una frase che mi colpì molto: «Io non voglio essere un medico, io voglio fare il medico». Spiegò molto chiaramente cosa intendesse: lei non intendeva identificarsi con il suo lavoro. Vedeva il suo lavoro, per quanto utile agli altri, come una parte della sua persona, della sua identità, che era molto di più della sua professione futura. «Io sono me stessa, la mia identità non si può racchiudere in una attività. Io farò il medico e questa sarà una delle mie tante attività. Un’attività a cui desidero dedicare una parte importante del mio tempo, ma nella vita voglio fare molto altro». Capii perfettamente cosa intendeva: desiderava sentirsi libera, non essere incasellata in un ruolo sociale. Avrebbe fatto il medico, avrebbe viaggiato, si sarebbe dedicata a uno sport o a una passione: in tutte queste cose, senza una gerarchia necessaria, lei avrebbe espresso sé stessa, la propria identità.
Questa prospettiva mi affascinò e al tempo stesso mi lasciò perplesso. Io, nato nel 1981, ho vissuto a lungo in un tempo in cui la professione definiva il ruolo sociale e la persona. Nella mia città c’erano il farmacista, il bancario, l’operatore ecologico, il barista, il fruttivendolo. Da bambino vedevo la società come un alveare, dove ognuno aveva un ruolo e contribuiva così al funzionamento dell’intera organizzazione. La visione di quella ragazza mi sembrò per molti aspetti liberante: nessuno deve essere ridotto al proprio mestiere, nessuno deve essere ingabbiato in uno schema, ogni persona ha diritto di esprimere la propria unicità. Pensai alle storie raccontatemi da molti ex allievi: tanti di loro hanno cambiato con disinvoltura indirizzi accademici, lavori, luoghi di vita, anche nel giro di pochissimi anni. Il mito della stabilità fa ormai parte del passato: si cambia continuamente, ci si evolve. La vita non è un alveare in cui inserirsi, è un mare sconfinato sul quale viaggiare, affrontando ogni onda in modo sempre diverso.
Eppure c’era qualcosa che mi lasciava perplesso nella visione di quella ragazza, qualcosa in cui non mi ritrovavo. Io non direi semplicemente che faccio l’insegnante, direi che sono un insegnante. L’insegnamento fa parte della mia essenza: il contributo che do al mondo attraverso la mia professione fa parte di me, del mio modo di essere. Ne parlai la scorsa estate con un gruppetto di amici, durante un’escursione in montagna. Tra loro c’era una ex allieva, ora prof di lettere come me. Nata negli anni novanta, docente appassionata alle scuole medie, disse così: «Io sono un insegnante e sono molto felice di esserlo. L’insegnamento è parte fondamentale della mia identità. Senza l’insegnamento non sarei chi sono. Insegnare dà senso alla mia vita».
Discutemmo a lungo di ciò anche con gli altri presenti e venne fuori la questione di cui spesso si discute: l’insegnamento è una vocazione o è una professione? La mia ex allieva e ora collega non aveva dubbi: per lei l’insegnamento era sicuramente una vocazione. Mi raccontò però di alcuni colleghi che, di fronte a questa sua affermazione, erano insorti: «Sempre la solita storia». le avevano detto, «con la scusa della vocazione il nostro lavoro viene sminuito. Siamo sottovalutati, sottopagati, umiliati con stipendi da fame. Ma tanto, ci dicono, insegnare è una vocazione! Basta! Siamo professionisti come gli altri! Gli insegnanti che parlano di vocazione danneggiano la loro stessa categoria!».
La mia ex allieva naturalmente non condivideva questo discorso: la doverosa battaglia per avere diritti e salari più adeguati nulla ha a che vedere con la vocazione, cioè la motivazione, la spinta esistenziale che porta a impegnarsi in un determinato campo. La vocazione è una chiamata, l’attrazione a partecipare a qualcosa di grande. La vocazione ha a che fare col dono di sé, ma non è sinonimo di gratuità dal punto di vista economico. Non è per forza una forma di volontariato senza retribuzione. Il giusto salario è una forma di rispetto della dignità delle persone: seguire la propria vocazione non significa rinunciare alla propria dignità. Un altro amico presente alla discussione, anche lui insegnante alle medie, allargò il discorso su come molti dei suoi allievi vedevano il proprio futuro lavorativo: «In tanti non partono da ciò che desiderano fare, ma da quanto possono guadagnare. Vogliono fare i soldi, in qualsiasi modo. Una mia studentessa mi ha detto apertamente che a lei andrebbe benissimo fare la mantenuta».
Non si può pretendere che un dodicenne abbia già le idee chiare: a quell’età spesso si tende a essere provocatori. Questa affermazione però poneva una nuova questione: cos’è il lavoro? È prima di tutto uno strumento per fare soldi o è prima di tutto il contributo che noi diamo al mondo intorno a noi? Ricordai le parole che, mesi prima, avevo ascoltato durante la presentazione di un libro da un famosissimo scrittore: «Conosco persone che guadagnano ventimila euro al mese e piangono tutte le mattine perché non vogliono andare al lavoro, perché non amano ciò che fanno». Eppure c’è chi punta a guadagnare tantissimo, il più velocemente possibile, per poi smettere di lavorare per sempre. Una posizione non molto diversa da quella, provocatoria, di quella ragazza delle medie. «Il problema», intervenne saggiamente un’altra persona presente alla discussione durante quella gita in montagna, «è che quando fai un lavoro di cui non vedi il senso, che non ti appassiona, ti rovini la vita. È un’esperienza terribile».
È vero. Noi esseri umani siamo affamati di senso: impiegare il nostro tempo per qualcosa che percepiamo come vuoto, per quanto remunerativo, avvelena l’anima, rende nervosi e insoddisfatti. La mia ex allieva raccontò di una sua studentessa che aveva il grande sogno di viaggiare. «Io voglio i soldi per viaggiare, punto. Del resto non mi importa nulla». Lei, la prof, iniziò un lungo dialogo con quella ragazza. Provò a farla riflettere e ci riuscì: la ragazza arrivò alla conclusione che poteva fare la guida turistica o lavorare in un’agenzia di viaggi. Così avrebbe potuto coronare il suo sogno di viaggiare e allo stesso tempo avrebbe potuto accompagnare altri alla scoperta del mondo. La sua passione sarebbe stata in qualche modo condivisa. Trovai questo esempio molto illuminante. Forse, più che chiedersi se l’insegnamento sia un lavoro o una vocazione, varrebbe la pena riscoprire la dimensione di vocazione che è presente in ogni lavoro. Ogni lavoro può essere vissuto solo come guadagno e come carriera ad ogni costo, anche a prezzo della sopraffazione di altri, e in questo caso è solo una forma di egoismo più o meno raffinata. Ma ogni lavoro può anche essere vissuto prima di tutto come dono di sé, come contributo al prossimo e al mondo intorno a noi, e in questo caso si vive nello stile della vocazione. E forse, dato che nessuna persona è un’isola e che nessuno si salva da solo, la vita come vocazione è la strada per essere soddisfatti, compiuti, realizzati. È lo splendido paradosso del nostro essere umani: possiamo essere felici solo se usciamo da noi stessi, se accogliamo gli altri, se abbiamo il coraggio di decentrarci.
Insegnante e scrittore

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