Battaglia e Avitabile: «Le nostre voci per la pace a Gaza»
Il cardinale e l'artista in dialogo questa sera a Napoli. L'evento, a ingresso libero nella Basilica di San Pietro ad Aram, sarà trasmesso in diretta streaming dalle 18 su www.avvenire.it

Nell’ambito del festival “Sacro Sud”, diretto da Enzo Avitabile e sostenuto dal Comune di Napoli, si terrà stasera un evento fortemente voluto da Avvenire: prima del concerto acustico “Santa rivoluzione”, l’artista partenopeo e l’arcivescovo di Napoli, cardinale Domenico Battaglia, avranno un dialogo su pace, fede e giustizia sociale moderato dal giornalista di Avvenire Massimiliano Castellani. Nella suggestiva Basilica di San Pietro ad Aram, all’inizio del famoso “Rettifilo” di Napoli, don Mimmo e Avitabile, dopo la fruttuosa collaborazione della scorsa Pasqua con “Perdonaci la pace”, offriranno brevi momenti di riflessione su quattro temi. Il primo: “La pace oggi: ferita aperta dalla storia”. Il secondo: “Il valore del perdono nella storia ferita dei popoli”. Il terzo: “Giovani, Mediterraneo e futuro”. Il quarto: “La pace come cammino possibile”. Il filo rosso sarà il ruolo dell’arte e della Chiesa nel generare coscienza. Previste tre importanti testimonianze: interverranno a distanza gli attivisti Sami Huraini e Mohammad Azazma e il sacerdote arabo palestinese padre Firas Abedrabbo, per descrivere la quotidiana sofferenza della Palestina sotto minaccia delle armi. Tutto avverrà a pochi metri da “Casa Bartimeo”, una delle più importanti opere-segno della Chiesa di Napoli per la carità, l’accoglienza e la dignità della persona. A conclusione, il concerto acustico “Santa rivoluzione” con lo stesso Enzo Avitabile e con Gianluigi Di Fenza alla chitarra, Emidio Ausiello alle percussioni e Christian Di Fiore alla zampogna. Produzione a cura di “Black tarantella”. L'evento è a ingresso libero e sarà trasmesso in streaming sul sito di Avvenire a partire dalle 18 ( www.avvenire.it )

IL CARDINALE MIMMO BATTAGLIA
«Bisogna disarmare il cuore»
«Bisogna disarmare il cuore»
Cardinale Domenico Battaglia, arcivescovo di Napoli, per tutti don Mimmo: è appena passato un altro Natale di guerra, come può nascere la Speranza mentre i popoli normalizzano morte, sangue e armi?
Il primo Natale si è realizzato in una terra ferita dall’occupazione militare e da rivolte. In un tempo e in una terra in cui la violenza e il dominio - proprio come oggi - sembravano avere l’ultima parola. In quella notte, come in ogni notte, il Signore è venuto e la nostra speranza è proprio in questa verità: non c’è notte che il Cristo non illumini. Perché Dio non si sottrae mai alla notte dell’umanità, ma vi entra, piccolo, fragile, disarmato. Mentre i popoli si abituano alla guerra, il Natale ci ricorda che l’abitudine al male è già una sconfitta. Per questo dobbiamo rifiutare di normalizzare la morte e scegliere, anche nel buio, di custodire la vita. Affrettando l’aurora della pace.
Mattarella avverte spesso su un pericolo: la guerra “forma” le menti, va a creare un nesso con la spirale della violenza quotidiana. È così?
La guerra educa alla semplificazione: divide il mondo in amici e nemici, giustifica l’eliminazione dell’altro, spegne la compassione. E questa mentalità scivola nelle nostre città, nelle relazioni, nel linguaggio. Le vie d’uscita esistono, ma chiedono tempo e coraggio. Passano dall’educazione alla pace, dalla giustizia sociale, dall’ascolto delle ferite. Non si costruisce la pace senza prendersi cura delle periferie dell’anima e della società. E soprattutto non si costruisce senza l’educazione. Per questo qui a Napoli abbiamo lanciato un Patto Educativo: perché la cultura della non violenza e della pace passa qui.
La politica, che lei ha evocato pochi giorni fa come alta vocazione, sembra brancolare nel buio, quasi vergognandosi di pronunciare la parola “pace”...
La pace è la forma più alta e più difficile della politica. Non è neutralità né debolezza, ma responsabilità. Una politica di pace sceglie la vita prima degli interessi, i diritti prima della paura, la dignità prima del consenso, i volti e le storie prima dei numeri dell’economia. Quando la politica dimentica il servizio, smarrisce l’anima; quando ritrova il bene comune, torna a essere vocazione. E la pace è la vocazione dell’umanità, la chiamata di Dio rivolta a tutti.
In questo contesto Napoli è lo specchio di tempi difficili o, come diceva Luciano De Crescenzo, è «ancora l'ultima speranza per l’umanità»?
Napoli è una città ferita, ma non cinica. È stanca, ma non indifferente. Qui il dolore convive con la solidarietà, la povertà con la creatività, la fatica con l’accoglienza. Napoli è specchio del mondo, ma anche laboratorio di umanità, perché non ha smesso di riconoscere l’importanza dei volti, dell’incontro, dell’abbraccio e della condivisione. A Napoli ho imparato che per fare pace anche dopo un litigio duro, basta condividere un caffè insieme. Perché la riconciliazione va di pari passo con la condivisione. Ecco, la capacità di riconciliarsi e di condividere credo siano cose che il mondo può imparare da Napoli.
La città vive una stagione turistica straripante, eppure né le povertà né i problemi sono spariti. Forse li si deve scovare andando oltre una narrazione dorata?
Sì, ma non occorre scovarli lontano perché un occhio attento vede l’emergenza abitativa, la solitudine degli anziani, le dipendenze di giovani e adulti, l’esclusione silenziosa dei più fragili. Per questo occorre andare oltre la cartolina, fermarsi, ascoltare, condividere. La bellezza, se non si accompagna alla giustizia, rischia di diventare una maschera. Dopo il boom del turismo auspico un boom di giustizia sociale, di educazione, di rinnovata solidarietà. Senza questo tutto è vano.
Dopo “Perdonaci la pace”, stasera lei si ritroverà ancora con Enzo Avitabile per proporre “sante rivoluzioni”: cosa vuol dire?
“Perdonaci la pace” denuncia le paci finte, quelle che non toccano le cause dell’ingiustizia. Le “sante rivoluzioni” - quelle che il mio amico, il maestro Enzo Avitabile canta - sono le quelle rivoluzioni che nascono dalle scelte quotidiane e radicali che provengono dal Vangelo: disarmare il cuore, restituire voce agli ultimi, cambiare lo sguardo, partendo dai poveri e dagli esclusi. Non è un caso che l’incontro con Enzo e il suo concerto “Santa Rivoluzione” avvenga a San Pietro ad Aram, la nostra. “Cattedrale della carità”, accanto a Casa Bartimeo, luogo di accoglienza di tante forme di fragilità: perché la pace nasce quando si ascolta il grido di chi chiede solo di essere visto.
L'ARTISTA ENZO AVITABILE
«Il nostro è un canto di speranza che sale dal popolo»
«Il nostro è un canto di speranza che sale dal popolo»
A Sud delle stelle c’è un popolo che parla con Dio teneramente, accorciando le distanze, “a tu a tu”, come si dice a Napoli. Il festival “Sacro Sud” che Enzo Avitabile propone alla città nel periodo di Natale non ha paura di tirare fuori e far esplodere una parola che non tutti amano, “devozione”, ma che per lui è altro dal ripetersi stanco di formule. «Non è liturgia, è un inno alla vita. È una preghiera – e non mi piace si dica preghiera laica, è preghiera, senza aggettivi -. È un canto randagio. È speranza in musica. È uno stato di coscienza più elevato. È il popolo che si avvicina al Signore e gli dice proprio quello che ha nel cuore, così com’è, senza filtri. Può essere imbarazzante, può apparire troppo, può persino sembrare una provocazione, ma è tutto vero perché il popolo è vero, non è una finzione», spiega l’artista e cantautore partenopeo, che stasera esegue nella Basilica di San Pietro ad Aram lo spettacolo “Santa rivoluzione”, preceduto dal dialogo con don Mimmo Battaglia, arcivescovo di Napoli.
Lei stasera sarà di nuovo fianco a fianco con don Mimmo, insieme in un contesto spirituale e artistico, dopo aver recitato, suonato, cantato e pregato insieme, nella scorsa primavera, “Perdonaci la pace”. Il vostro implorare la pace insieme è più ostinazione, speranza o necessità?
Nella vita, nella musica e nella fede ci sono due aspetti: “Io so” e “Je song”. Io so, conosco, ho un sapere. E io sono, vivo, esisto, soprattutto attraverso la volontà e l’azione che mi definiscono continuamente. Qualche giorno fa ero all’ospedale Monaldi e suonavo per i malati: là “je song”, e se riesco a “essere” allora vinco il grande nemico, la retorica. Quando riusciamo a superare la retorica allora nascono e rinascono le emozioni, che possono aprire strade straordinarie e imprevedibili. E allora io non mi chiedo se il nostro cantare la pace possa sortire effetti, cambiare le cose. No, non mi chiedo questo. Cantare la pace per me, penso per noi, per me e don Mimmo, è un atto di affidamento. Proviamo a essere, e affidiamo a Dio.
A chi vi ascolterà stasera chiedete una “santa rivoluzione”. Le parole hanno un peso: tutte le rivoluzioni sono sante?
Per me la rivoluzione è la costante riforma di se stessi. Una crescita. Allenare la volontà e offrire questa volontà a Colui che può. Rivoluzione è fissare un’icona e andare oltre: credere nel finito e nell’infinito. Lo capiamo in modo perfetto nel Rosario, in cui credo fortemente. Tra le mani qualcosa di piccolo e finito che ci può condurre in uno stato di comprensione più alto.
In San Pietro ad Aram Napoli poteva festeggiare il Giubileo un anno dopo. L'umanità ha ancora e sempre un tempo supplementare per salvarsi?
Ogni giorno che nasce può essere il nostro Giubileo. Non credo che l’uomo sia mai in ritardo con la possibilità di credere e di salvarsi. Non abbiamo bisogno di tempi supplementari. Abbiamo bisogno di riprendere tra le mani il giorno che nasce, lì ci stanno tutte le nostre opportunità.
Per Napoli è un momento di vitalità artistica straordinaria. Dalle periferie emergono personalità come quella di Geolier in grado di condizionare il linguaggio da Sud a Nord, spingendo sul dialetto proprio come lei, Pino Daniele, James Senese e altri giganti che la città tiene stretti a sé in un unico abbraccio che unisce passato, presente e futuro. La differenza è che le nuove generazioni sono ancora riluttanti ad esprimere anche un messaggio a maggiore impatto sociale?
Io non parlo degli altri, faccio già fatica a parlare di me. Ma non cadrò mai nelle contrapposizioni, meno che mai quelle generazionali. I giovani sono un punto-luce. Con Geolier abbiamo fatto “Oro e diamanti”. Con tantissimi di loro ho già collaborato. Mi sento complice dei giovani, non sarò mai loro giudice.
Lei ha esplorato la musica in tutte le noti e in tutti i Continenti. Sembra quasi voler affrontare le prossime tappe professionali come una missione…
La mia prima parte di carriera li ho dedicati al juke-box. Ero affasciato da quei suoni, da Afrika Bambataa. E sì, i testi erano nostri, certo, ma un po’ di maniera, chi può negarlo. Dopo aver provato tante musiche e tanta musica, ho iniziato la mia disamericanizzazione. Ora cantiamo in dialetto le sofferenze e le attese dei popoli e delle persone. Il sacro Sud. La santa rivoluzione di ogni giorno. Ho preso come punto-guida Sant’Alfonso dei Liguori, ascolto musica sacra e la cameristica napoletana, ma con la voglia, sempre, di non restare in una musica sola. Oggi canto e suono le musiche della mia musica. Cercando un senso, sì, provando ad andare oltre, perché nella musica “je song”…
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