martedì 9 agosto 2022
Vincenzo Semeraro, otto anni passati nell’Ufficio di sorveglianza di Venezia e dall’aprile del 2017 in quello di Verona, parla dell'ultimo incontro con la giovane detenuta e del fallimento del sistema
Donatella e gli altri suicidi in carcere. «Ecco perché ho chiesto scusa»

Ansa

COMMENTA E CONDIVIDI

L’orologio torna indietro a una mattina di giugno. Ufficio del tribunale di sorveglianza di Verona, il sole caldissimo entra dalla finestra, da una parte del tavolo c’è una ragazza con la testa tra le mani, che parla, parla; dall’altra il giudice, attento, preoccupato.

Lei si chiama Donatella: ha 27 anni e da quando ne ha 21 entra ed esce dal carcere. Una vita divorata dalla dipendenza, poi dall’illegalità. Lui, invece, è Vincenzo Semeraro: magistrato di lungo corso, otto anni passati nell’Ufficio di sorveglianza di Venezia, dall’aprile del 2017 in quello di Verona. Dove Donatella, la prima volta, era entrata già allora.

Tra il colloquio di giugno scorso e lunedì, quando nella chiesa parrocchiale di Castel d’Azzano della giovane sono state celebrate le esequie, c’è l’abisso dei suicidi in carcere che sta sconvolgendo il nostro Paese, senza che nessuno di chi dovrebbe intervenire per fermarli se ne accorga, o quasi. Perché Donatella si è uccisa, settimana scorsa, nella sua cella di Verona: la quinta vittima in sette giorni, nell’estate più calda e più difficile anche per la storia penitenziaria italiana.

È proprio dal suo caso che Avvenire ha preso spunto per tornare ad accendere i riflettori sull’emergenza: Donatella, prima di togliersi la vita, aveva scritto un messaggio straziante al suo fidanzato, «Leo amore mio, mi dispiace. Sei la cosa più bella che mi poteva accadere, ma ho paura di tutto». Di non farcela, o forse di non riuscire ad affrontare di nuovo il carcere, di tornare a rubare una volta uscita per comprarsi la droga di cui non riusciva a fare a meno. Sono queste le ragioni che, nel deserto relazionale dei penitenziari (sovraffollati, spesso fatiscenti, privi di organici e di professionisti in grado di farsi carico del disagio sempre più diffuso), spingono tanti detenuti a fare come lei. Già 47 in questo 2022. E sono il cruccio del giudice Semeraro, che ai funerali di Donatella ha voluto fosse letto anche un suo messaggio di scuse: «So che avrei potuto fare di più per Donatella, non so cosa, ma so che avrei potuto».

Giudice, perché questo messaggio?
Perché conoscevo Donatella da sei anni. E come spesso accade, quando segui da vicino i casi drammatici dei ragazzi e delle ragazze che finiscono in carcere per problemi di dipendenza, finisci con l’affezionarti a loro come se fossero dei figli. In carcere c’è un’umanità sterminata e le loro storie si assomigliano: sono fragili, fragilissimi, spesso provengono da famiglie altrettanto fragili. Entrano ed escono dal carcere di continuo. Nel caso di Donatella, il problema era il suo rifiuto ostinato a entrare in una comunità di recupero: ho sempre provato a convincerla, non ci sono riuscito. La verità è che è molto più facile entrare in carcere che in una comunità...

Che cosa intende dire?
A un tossicodipendente in carcere viene fornito il metadone, punto. Poi si può stare anche seduti tutto il giorno in branda a guardare la tv. In comunità ti devi mettere in discussione in un percorso di ricostruzione personale e in relazione con altri. Donatella non voleva farlo. Poi qualcosa è cambiato.

Quando?
A gennaio scorso mi chiese un colloquio e mi disse che era determinata a cambiar vita. A marzo la inviai in una comunità, ma già a maggio la misura venne revocata. Mi chiamarono dicendo che si comportava male. Questo mi lasciò contrariato: io lavoro con diverse comunità, l’ultima mi ha chiamato mezz’ora fa, il giovane che gli ho inviato è già stato trovato in possesso di anfetamina due volte eppure non hanno nessuna intenzione di perdere le speranze con lui, vogliono proseguire il percorso. Nel caso di Donatella le cose sono andate diversamente: dobbiamo naturalmente confrontarci con la diversità dei servizi che operano sul territorio, nel suo caso si sono arresi. O forse non è stato capito il suo carattere, a tratti oltremodo scontroso e problematico: per me, che la conoscevo, si trattava di una corazza con cui tentava di proteggere la sua enorme fragilità.

Perché sente di non aver fatto abbastanza per lei?
Non riesco a togliermi dalla testa l’ultimo colloquio che abbiamo avuto, a giugno. Lei piangeva, raccontandomi dell’errore fatto comportandosi così in comunità. Si scusava, tentava di giustificarsi. Ripeteva di voler cambiare, di desiderare una vita normale: una casa, un lavoro, una famiglia. Mentre la sentivo parlare pensavo che sono le stesse aspirazioni che hanno tutti i giovani alla sua età, mentre quelli tossicodipendenti continuiamo a considerarli diversi. Alla fine della nostra chiacchierata si è alzata stringendomi la mano: «Grazie sai...» mi ha detto. E quelle parole non riesco a scordarmele. Se le avessi parlato dieci minuti in più, se avessi trovato altre parole per confortarla, se avessi tentato un’altra strada forse le cose non sarebbero finite così. Con la mia lettera, consegnata ai suoi familiari, ho voluto far sentire la mia voce, che credo debba essere quella di tutto il sistema: perché se una giovane donna di 27 anni si uccide in carcere è tutto il sistema penitenziario che ha fallito. Io mi metto in prima linea, ma ci riguarda tutti.

Che cosa non sta funzionando nelle carceri, a suo avviso? Quali sono le ragioni di questo fallimento?
Il carcere, innanzitutto, non è un luogo per donne. È pensato e costruito come un luogo di contenimento per la violenza e l’aggressività fisica, che sono tipicamente maschili. Non c’è spazio per l’emozionalità e l’affettività che caratterizzano i percorsi femminili. Ma nel caso dei suicidi in generale entrano in gioco anche altre problematicità: c’è il nodo dei percorsi di riabilitazione e riscatto che vanno offerti attraverso il lavoro, ancora troppo a macchia di leopardo. Io che sono stato tanti anni a Venezia, ho visto l’eccellenza della Giudecca coi suoi progetti innovativi nella sezione femminile: il laboratorio sartoriale da cui escono gli abiti di scena per la Fenice o quelli per la Marina militare, la lavanderia e la sartoria da cui passano le tovaglie e i tessuti dei migliori ristoranti della città, l’orto biologico con cui si confezionano i kit di cortesia per gli alberghi a 5 stelle. Nel carcere di Verona c’è solo una cooperativa attiva sul fronte dei progetti di reinserimento: si fa carico di 5 o 6 detenute sulle 40 in media che vi transitano durante un anno. E poi c’è la questione annosa dei rapporti con le aziende sanitarie locali e coi Serd: anche in questo caso, qui a Verona, scontiamo qualche difficoltà nel coordinarci.

Ha parlato con la famiglia di Donatella?
Suo padre è stato nel mio ufficio stamattina. Mi ha ringraziato. È un uomo distrutto, anche lui aveva tentato in tutti i modi di aiutare sua figlia. Abbiamo condiviso i rispettivi rimpianti. Io me lo porterò dietro per tutta la vita. Mi consola il pensiero delle tante ragazze che invece ce la fanno: alcune sono passate da questo ufficio, oggi sono fuori. Non c’è solo male.


© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: