sabato 13 aprile 2024
Cinque milioni per combattere il male oscuro di chi sta dietro le sbarre: parlano gli addetti ai lavori. Il cappellano di Busto Arsizio: troppe chiusure, garantire socialità e telefonate ai familiari
Una cella del carcere di San Vittore a Milano

Una cella del carcere di San Vittore a Milano - Fotogramma

COMMENTA E CONDIVIDI

Cinque milioni di euro per prevenire e contrastare i suicidi in carcere. Lo ha deciso il governo. Dall’inizio dell’anno 31 detenuti si sono tolti la vita, 490 hanno tentato di uccidersi e circa 3.500 hanno compiuto atti di autolesionismo. Un netto peggioramento rispetto agli anni passati. Col decreto firmato nei giorni scorsi dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, lo stanziamento annuale di bilancio è stato più che raddoppiato per essere destinato al «potenziamento dei servizi trattamentali e psicologici» nei 189 istituti penali del Paese. Il fondo, finanziato dalla Cassa delle ammende, servirà per aumentare la retribuzione degli psicologi che lavorano nelle prigioni (pagati attualmente 30 euro lordi l’ora). Parliamo di professionisti a contratto, ex articolo 80 dell’ordinamento penitenziario e non di personale assunto in pianta stabile, come sarebbe necessario per garantire in continuità la salute mentale dei 61.000 reclusi nelle patrie galere.

Il lavoro di pochi “precari” con persone fragili e arrabbiate con la vita

«Siamo precari la cui posizione lavorativa è soggetta a rivalutazione con selezione ogni quattro anni – spiega Chiara Paris, psicologa presso la Casa circondariale “Spini di Gardolo” a Trento – e questo spesso porta a un ricambio dei professionisti che non aiuta le persone detenute. Inoltre, il monte ore mensile è ridotto, mai superiore alle 64, molto spesso nettamente inferiore, e soggetto a variazioni nel tempo che rendono difficile seguire elevati numeri di utenti nel modo migliore. Anche gli psicologi Asl – aggiunge Paris – sono spesso in numero ridotto e necessiterebbero di maggiori risorse». Ma qual è il lavoro degli psicologi con i detenuti? «Ci occupiamo di osservazione e trattamento, accompagniamo la persona condannata definitivamente in una riflessione sui motivi che l’hanno portata al reato e sulle possibili conseguenze dello stesso, al fine di fornire una valutazione quando questa viene chiesta dalla magistratura di sorveglianza ma svolgiamo anche azioni di sostegno». Ma è sufficiente, questo, a impedire che la disperazione di chi è ristretto prenda il sopravvento fino alle estreme conseguenze? «Il suicidio si previene con un ambiente che restituisca alla persona la possibilità di esprimere la propria rabbia verso gli altri e se stessi e attraverso mezzi e attività che permettano di recuperare la fiducia in sé e nelle proprie potenzialità» afferma lo psicologo e psicoterapeuta Angelo Juri Aparo, per 40 anni consulente del ministero e ora impegnato nelle carceri milanesi con il “Gruppo della Trasgressione”, cooperativa sociale che dal 1997 si occupa di progetti a sostegno dei detenuti. «Il suicidio è favorito dalla difficoltà di tollerare, con la consapevolezza dell’oggi, la viltà del proprio passato, a maggior ragione quando la persona sente di aver perso la possibilità di rinnovarsi – osserva Aparo – e di non avere un futuro nel quale riconoscersi vivendo un senso d’oppressione così invalidante da volerne fuggire a ogni costo. Il suicidio è l’atto finale di una tirannia esercitata per anni ai danni di sé stessi».

Ma il disagio non significa solo patologie

Complessi sono i meccanismi della mente che possono portare un carcerato all’atto estremo. «Ma non è solo patologia, esistono fattori scatenanti, momenti critici, fattori personali legati agli affetti familiari o a difficoltà di relazione. E, inoltre, la “decisione” di togliersi la vita è influenzata spesso da aspetti di carattere culturale» sostiene Daniela Pajardi, docente di psicologia giuridica e sociale all’università di Urbino uno dei 4 membri della categoria che partecipa al “tavolo” istituito dal dicastero di viale Tevere tra Dap e Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi per definire protocolli e modalità di interventi allo scopo di prevenire i suicidi. «La tematica appartiene a tutte le figure dell’area sanitaria e non solo: esistono segnali, indicatori di rischio che vanno colti subito e in modo corretto, si tratta di un lavoro integrato – precisa Pajardi – che riguarda operatori appositamente formati. Tutti hanno un ruolo di prevenzione, poliziotti penitenziari, educatori, medici, mediatori culturali, dirigenti dell’istituto». Ma ci sono fasce più fragili che meritano maggiore attenzione: donne e immigrati stranieri, per esempio. E i condannati a “fine pena mai”. «Un ergastolano, ma anche un recluso che deve scontare molti anni, arriva a non distinguere più il prima e il dopo – afferma Aparo – la vita di un uomo, però, è identificabile da tappe evolutive, il tempo deve essere misurabile, bisogna avere la possibilità di trasformare la realtà e l’ambiente. Ma il carcere è l’antitesi di questo – osserva –, lì meno rumore fai e più si sta tranquilli. Ma così è difficile essere riconosciuti». Non si può entrare nella testa di chi medita il suicidio. «Quando ci si uccide spesso lo si fa per colpire un nemico, un tiranno incorporato nel proprio midollo: la morte è per punire qualcuno che si odia e nei cui confronti ci si sente impotenti – spiega Aparo –, si uccide così una parte interna che opprime il proprio sé impedendogli di formulare un progetto evolutivo. Come dire: tenetevi pure il corpo che è diventato vostro, io me ne vado». Il carcere, di per sé, favorisce il suicidio. «Dietro le sbarre carezze non ce ne sono e se sei pericoloso vieni controllato, si creano tensioni e quando si ha sentore che un detenuto può suicidarsi – dice lo psicoterapeuta – lo si mette in una “cella a rischio” ma su di lui non ha buoni effetti».

Un tempo da riempire e gli affetti da curare

Gli interventi psicologici, da soli, non bastano a salvare la vita dei detenuti, servono anche più contatti con la famiglia, lavoro e attività per riempire il tempo. «Vanno evitati progetti che rischiano essere di puro tamponamento, cioè senza continuità – sostiene Pajardi –, forse utili ma non sufficienti, esistono problemi strutturali a cui va data risposta: e non basta aumentare le ore di colloquio con gli psicologi o somministrare più farmaci, bisogna dare uno scopo alla vita dei reclusi».
Intanto però di carcere e in carcere si continua a morire. «Da novembre siamo tornati al regime chiuso – afferma don David Maria Riboldi, cappellano nella Casa circondariale di Busto Arsizio – nessuno fa le “vasche” in sezione, camminando avanti e indietro per provare a stancare quel corpo che la notte poi non ne vuole sapere di dormire. A Natale e Pasqua le celle sono rimaste chiuse. Permessa la socialità ristretta: puoi chiedere di andare a pranzare nella cella dell’amico: chiusi dentro». Sarà un caso che l’impennata dei “morti da carcere” sia arrivata proprio adesso?» si domanda il sacerdote. C’è poi la questione delle telefonate ai familiari. Tutti hanno detto, anche ministro e Dap, che possono essere aumentate le attuali 4 al mese (di 10 minuti ciascuna) ma si attende una decisione (anche se i direttori possono autorizzarne più di quelli previsti dal regolamento). «Serve un risveglio della coscienza nella collettività, anzitutto – sottolinea don Riboldi –, serve leggere i fatti e l’umiltà di passi indietro e qualche passo in avanti, le celle andrebbero riaperte, le telefonate andrebbero aumentate. Non cambierà niente? Ma non vale la pena provare a salvare vite umane?».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI