giovedì 28 giugno 2018
40 ore di agonia, polizia schierata per impedire che i genitori fermassero la procedura di morte decisa da medici e giudici. E il silenzio dei media. Ecco la vera storia di Inés,14 anni, vegetativa.
L'ospedale pediatrico di Nancy, dov'era ricoverata Inés.

L'ospedale pediatrico di Nancy, dov'era ricoverata Inés.

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Inés ha impiegato circa 40 ore a morire. Le hanno staccato il respiratore artificiale martedì 19 giugno alle 18.30 del pomeriggio, ed è morta giovedì 21 a mezzogiorno all’ospedale di Nancy, in Francia. Quando l’hanno "estubata" erano presenti otto poliziotti per garantire che tutto andasse liscio, impedendo qualsiasi resistenza dei genitori, che fino alla fine si sono opposti alla decisione dei medici di lasciar morire loro figlia. «Quattro su di me e quattro sul padre», racconta Djamila Afiri, la mamma di Inés, in una intervista a Europe1, dicendo di provare «un enorme disgusto. Aveva bisogno di ossigeno. Quando l’hanno staccata, respirava un po’ da sola. Ma dopo è diventata blu». La madre ha chiesto allora ai medici «di dare un po’ di ossigeno, e hanno rifiutato. Ho detto loro che non erano umani, che non avevano un cuore».

La vera storia


Inés aveva 14 anni quando ha avuto un arresto cardiaco, il 22 giugno 2017, ed è entrata in stato vegetativo. Solo un mese dopo una decisione collegiale dei medici dell’ospedale francese aveva stabilito che continuare a ventilare la ragazzina sarebbe stata una «ostinazione irragionevole», come recita la legge francese intitolata ai suoi due "padri", Claeys-Lèonetti. Secondo un documento citato dal quotidiano L’Est Républicain, il capo del dipartimento in cui la ragazza era ricoverata ha giudicato che «la storia, l’esame clinico, i risultati delle immagini, l’elettroencefalogramma sono tutti concordi nel ritenere quasi nulle le possibilità di miglioramento o guarigione, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche».
Ma i genitori si oppongono: «Un crimine organizzato – denuncia sua madre –, è inumano». Inizia quindi un contenzioso che investe prima il tribunale amministrativo competente, poi il Consiglio di Stato e infine la Corte europea dei Diritti umani, in un percorso che ripete, in salsa francese, quello dei piccoli inglesi Charlie Gard, Isaiah Haastrup, Alfie Evans.
Stavolta però la notizia è passata quasi sotto silenzio: nonostante le dichiarazioni della mamma di Inés, non c’è stata alcuna mobilitazione a sostegno della famiglia: non sappiamo se causa o conseguenza della scarsa attenzione dei media. Probabilmente dei prossimi casi simili a questi non sapremo più niente: alcune questioni ormai sembrano "digerite" da esperti e opinione pubblica, apparentemente indifferenti a quelli che invece restano aspetti inquietanti, quando non intollerabili.

Charlie, Isaiah, Alfie...


Sembra ormai accettata l’idea che non è tanto la sofferenza a essere chiamata in causa nelle interruzioni dei sostegni vitali quanto piuttosto la possibilità di un miglioramento apprezzabile del malato, dove per "apprezzabile" si intende un guadagno nella sua autonomia e nella relazione con l’ambiente. In condizioni di totale dipendenza e di apparente non comunicabilità esterna, è considerato il vivere stesso una «ostinazione irragionevole». Non si parla più di imminenza della morte o di terminalità: Isaiah Haastrup non era malato, ma gravemente cerebroleso per errori medici al momento del parto, come riconosciuto dal medesimo ospedale che lo ha fatto malamente nascere e poi morire. È il trionfo del criterio della "qualità della vita", stabilita non più dal soggetto stesso ma totalmente eterodeterminata da medici e giudici, a prescindere anche dalla volontà dei genitori del minore interessato.
Ma c’è qualcosa di più, che dovrebbe interrogare tutti, ed è il modo in cui questi bambini sono morti.
Isaiah, un anno di età, ha annaspato per più di sette ore in braccio a suo padre, dopo che gli è stato tolto il respiratore artificiale. Charlie Gard per morire ha invece impiegato "solo" dodici minuti, una volta sospesa la ventilazione, spalancando gli occhi alla fine come per un ultimo sguardo ai suoi genitori, che lo hanno raccontato. Alfie Evans è sopravvissuto cinque giorni al distacco del ventilatore, anche grazie alla respirazione bocca a bocca di papà Thomas e mamma Kate nella prima notte dopo il distacco, e all’ossigeno poi, dato con mascherine letteralmente gettate a suo padre dai suoi sostenitori, che solo lanciandole in aria hanno potuto superare lo schieramento della polizia davanti alla terapia intensiva dove Alfie era ricoverato. Di Inés abbiamo già detto: 40 ore e otto poliziotti.
Dal protocollo diffuso da Thomas Evans, usato probabilmente anche per gli altri due piccoli inglesi, sappiamo che prima vengono somministrati sedativi, dopo si staccano tutti i monitoraggi, e infine si sospendono i sostegni vitali. Poi si osserva cosa succede.
In altre parole, non si vuole sapere cosa accade, clinicamente, a coloro cui si stacca il ventilatore: il ritmo cardiaco, la respirazione, e tutti quei parametri solitamente sotto controllo in terapia intensiva. Quella persona deve morire, non è previsto altro. E se la morte non arriva subito? È sufficiente aspettare.

Una morte "dignitosa"?


Ma è etico tutto ciò? Lo chiediamo innanzitutto a chi è convinto che per questi minori fosse meglio morire: di quali protocolli medici stiamo parlando?
Faticare a respirare per ore, magari con brevi interruzioni dovute alla respirazione bocca a bocca fatta dai genitori, è forse una morte dignitosa? I medici in questi casi mettono in conto che l’agonia possa durare a lungo? E quando una persona non muore subito, una volta sospesa la ventilazione meccanica, è considerata la possibilità di una diagnosi sbagliata circa la respirazione autonoma della persona? Si può reputare tutto questo un modo per evitare la sofferenza? Sofferenza dei bambini, ma anche dei genitori? È tollerabile invocare l’intervento della polizia per tenere sotto controllo i genitori, mentre se ne lasciano morire i figli?
Insomma: anche chi pensa che il miglior interesse sia morire ritiene veramente che il miglior interesse di questi bambini sia morire in questo modo? Non siamo forse davanti a un particolare surplus di inumanità? Oppure: chi approva questi percorsi, non dovrebbe togliere anche l’ultimo velo di ipocrisia e cercare la morte più veloce e indolore possibile, parlando apertamente di eutanasia pediatrica?

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