sabato 23 settembre 2023
La causa intentata è già «storica» mercoledì al Tribunale europeo per i diritti umani si tiene l’ultima udienza Il caso parte dagli incendi boschivi, ma muove un’accusa pesante inazione dei governi
I giovani ecologisti portoghesi con i loro avvocati

I giovani ecologisti portoghesi con i loro avvocati - Web

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Lo hanno già etichettato come il “processo del Millennio”. E in effetti lo è. Non solo per le possibili ricadute sul futuro del Pianeta e dei suoi abitanti. Ma soprattutto perché i sei protagonisti dell’inedita azione legale sono “millennials”. Avevano tra i 10 e i 23 anni quando tutto è iniziato, un fatidico 17 giugno del 2017. Quel giorno, un incendio fuori controllo ha devastato il bosco di Pedrógrão Grande, nel centro del Portogallo, non lontano dalla casa dell’allora 14enne Martim Duarte Agostinho che ha assistito impotente al fuggi fuggi generale, come le sue due sorelle e i tre cugini.

La gran parte, però, non ce l’ha fatta: 64 persone sono morte, intrappolate dalle fiamme. Quattro mesi dopo, una nuova ondata di roghi “anomali” ha portato il bilancio delle vittime a quota cento. Entrambe le volte, le tragedie sono state liquidate come «disastri naturali». Per Martim, Cláudia e Mariana Duarte Agostinho, Catarina dos Santos Mota, Sofía e André dos Santos Oliveira, invece, quello è stato il campanello d’allarme. «Ci siamo resi conto di quanto profondo fosse e sia l’impatto del cambiamento climatico nelle nostre vite quotidiane», racconta Sofía, ora 18enne. «La situazione, poi, peggiora di giorno in giorno – aggiunge la cugina Catarina, che ha compiuto 23 anni –. Lo scorso luglio è stato il più caldo di sempre nella storia del Portogallo. Non riuscivamo a fare attività all’aperto, a dormire, a concentrarci». Da qui la storica decisione. Portare di fronte alla giustizia gli Stati europei che, pur avendo firmato la Convenzione europea dei diritti umani, non farebbero abbastanza per difenderli. In particolare quello dei propri cittadini a una vita degna, minacciata dal riscaldamento globale. Senza politiche drastiche per ridurre le emissioni e contenere le temperature, «non possiamo avere un’esistenza normale. I nostri corpi ne risentono. E le nostre menti. Siamo terrorizzati dal futuro. Come potremmo non esserlo», sottolinea André, ancora 15enne.
Sulla base di queste motivazioni, il caso è stato presentato di fronte alla Corte Europea per i diritti umani nel settembre 2020 e quest’ultima ha accettato di discuterlo. Oltretutto non in un’aula qualunque, bensì di fronte ai diciassette magistrati della “Gran Camera”, dove viene dibattuto solo lo 0,03 per cento dei ricorsi, quelli più rilevanti. L’udienza, finalmente, è stata fissata mercoledì. E l’apparente sproporzione di forze le conferisce una nota epica. Da una parte ci saranno i sei ragazzi, i legali del Global legal action network – che li assistono e che hanno potuto sostenere le spese grazie a una campagna di crowfunding attraverso la quale sono stati raccolti 100mila euro – e gli attivisti di Youth 4 climate justice. Dall’altra i Paesi dell’Ue, più Norvegia, Russia, Svizzera, Gran Bretagna e Turchia. Tutti i firmatari della Convenzione, cioè, meno l’Ucraina, contro cui sono state ritirate le accuse in seguito all’esplosione del conflitto.
Mai un numero tale di nazioni (ben 32) era stato citato in giudizio sulle politiche climatiche. A difenderli, oltre 80 avvocati dei migliori studi, i quali, nelle risposte finora presentate, hanno sostenuto che non i ricorrenti non possono dimostrare alcun danno diretto o sufficientemente grave causato dagli incendi del 2017 o dal cambiamento climatico. La posta in gioco è alta. Se la Corte – i cui tempi decisionali variano tra i nove e i 18 mesi – dovesse dare ragione ai ragazzi, la sentenza equivarrebbe a un trattato regionale giuridicamente vincolante per i 32 “imputati”.
Le decisioni del tribunale di Strasburgo, inoltre, hanno un’influenza su quelle delle Corti nazionali, il che faciliterebbe il lavoro di altri attivisti, soprattutto giovani e giovanissimi che, di fronte alla lentezza dei governi, si rivolgono ai tribunali. Senza lasciare la piazza, sono sempre più i “Fridays” che entrano in aula: l’ultimo rapporto dell’Environment program dell’Onu nel 2022 ha registrato 2.180 “cause climatiche” in sessantacinque differenti giurisdizioni, nel 2017 erano 884.
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