giovedì 7 marzo 2024
Oggi un altro round al Cairo. Hamas chiede di nuovo il rilascio di Barghuti. Allarme per le due parrocchie della Striscia che ospitano 830 sfollati
Mamma e bimbo palestinesi fra le macerie di Khan Younis

Mamma e bimbo palestinesi fra le macerie di Khan Younis - Ansa

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Nel linguaggio degli scacchi si dice «zeitnot». Indica quando i giocatori hanno poco tempo a disposizione per realizzare le proprie mosse. È esattamente la situazione in cui si trovano i negoziatori di Israele e Hamas. L’inizio del Ramandan, domenica, incombe sulle trattative. Gli Usa – insieme ai mediatori Qatar e Egitto – premono perché, entro tale data, il cessate il fuoco sia già stato siglato. Ciascuno dei due avversari, però, teme che un passo azzardato possa azzerare il vantaggio sull’altro. E, così, restano fermi. Secondo Washington, la palla è nelle mani dei miliziani.
In particolare del loro leader nella Striscia, lo sfuggente Yahya Sinjar, il quale, però, potrebbe essere interessato a proseguire gli scontri nel mezzo del Ramadan nella speranza di ottenere finalmente il sostegno militare degli Stati arabi, finora poco inclini ad andare oltre le parole. Dal Cairo, però, i rappresentanti di Hamas hanno ribadito impegno e flessibilità per raggiungere l’intesa e addossano la responsabilità del ritardo a Israele. Sulla pausa di una quarantina di giorni nei combattimenti e sullo scambio tra ostaggi e detenuti palestinesi, le parti concordano. Quando, però, si entra nello specifico dei modi dei rilasci e del ritiro dalla Striscia, il negoziato si incaglia. Nell’ultima bozza di proposta, Hamas avrebbe inserito – dicono fonti vicine ai colloqui – alcuni nomi non negoziabili di detenuti da liberare. Il primo della lista – che include vari esponenti dis picco dell’Intifada – sarebbe Marwan Bargouti, considerato da tanti colui che, per il sostegno di cui gode anche in Cisgiordania, potrebbe dare nuovo slancio all’Autorità nazionale palestinese (Anp). Oggi è previsto un ennesimo round ma di nuovo la delegazione israeliana potrebbe non essere presente perché i miliziani rifiutano di dire quanti dei 134 ostaggi siano ancora vivi. Il protrarsi dei combattimenti rende sempre più insostenibile la situazione sul terreno. A cinque mesi esatti dall’inizio del conflitto, le vittime nell’enclave hanno raggiunto quota 30.717, secondo i dati forniti dalle autorità sanitarie controllate da Hamas. Ci sono stati 86 morti solo nelle ultime 24 ore. Insieme agli uccisi negli scontri, crescono quanti muoiono per fame, sete e malattie curabili a causa dell’implosione degli ospedali. Ieri il ministero della Salute di Gaza ha annunciato il decesso a Gaza City di una 15enne gravemente disidratata: il diciottesimo caso in una settimana. L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha denunciato un’estrema malnutrizione infantile nella Striscia che avrebbe già causato la morte di dieci bambini. Per allenatere la pressione, l’Unione Europee sta valutando la creazione di un corridoio umanitario per gli aiuti. «Senza un cessate il fuoco non ci sarà più da mangiare, è una situazione gravissima», è l’allarme lanciato dal segretario di Caritas Gerusalemme, Anton Asfar, ieri era a Roma per incontrare don Marco Pagniello, direttore di Caritas italiana, che ha assicurato il proprio sostegno tecnico e finanziario. «Caritas Gerusalemme è una delle tre organizzazioni umanitarie presenti nel nord della Striscia oltre che a Rafah e Khan Yunis – spiega Asfar –. Finora, nonostante le enormi difficoltà e i lutti subiti, siamo riusciti a fornire assistenza di base alle 803 persone accolte nelle due parrocchie di Gaza City. Le scorte, però, stanno finendo. È una situazione gravissima».
Le due Caritas sorelle stanno, inoltre, predisponendo una serie di interventi di lungo periodo di sostegno economico a Gaza e in Cisgiordania. Anche nei Territori, con i permessi di lavoro in Israele congelati e centinaia di barriere che impediscono la mobilità di persone e merci, la crisi economica è forte. E con essa cresce la tensione. Ad acuirla ulteriormente, il nuovo via libera di Israele a 3.500 nuove case negli insediamenti di Male Adumim, Efrat e Kedar, lungo l’area che va da Gerusalemme a Gerico. Una scelta duramente contestata da Peace Now: «Invece di costruire un futuro di pace e sicurezza, il governo prepara la strada per la nostra distruzione».

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