giovedì 31 gennaio 2019
Se dovesse scavallare le elezioni europee del 23-26 maggio, visto il caos politico che regna a Londra, si porrebbero seri problemi giuridici sul voto col rischio di annullamento. Ecco perchè
Brexit rinviata? Spada di Damocle sulle elezioni del Parlamento Europeo
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Westminster ha bocciato l’emendamento che proponeva di chiedere un rinvio dell’uscita del Regno Unito dalla Ue rispetto alla data prevista, il 29 marzo 2019. Eppure a Bruxelles e nelle capitali un po’ tutti continuano a vedere questa ipotesi come assolutamente reale, visto che il tempo ormai è strettissimo e anche a Londra non viene affatto esclusa. «Io penso sia vero - ha detto il ministro degli Esteri britannico Jeremy Hunt - che se finiamo per approvare un accordo pochi giorni prima del 29 marzo, allora potremmo aver bisogno di una qualche proroga per far passare la legislazione essenziale».

In realtà sono in tanti i diplomatici europei a pensare che potrebbe essere necessario un rinvio ben più lungo di pochi giorni. Non a caso lo stesso presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk, nella sua risposta al voto di Westminster il 29 gennaio, ha affermato: «se vi sarà una richiesta del Regno Unito di un'estensione, i Ventisette saranno pronti a considerarlo e deciderlo all'unanimità».

Una prospettiva però con serie complicazioni, se il rinvio non dovesse essere breve, soprattutto se dovesse scavallare le elezioni europee del 23-26 maggio, con una seria ipoteca giuridica sul voto. Su una cosa, almeno, sembra esserci un vasto consenso: se la Brexit avviene entro il primo luglio, dunque il giorno prima della riunione costitutiva a Strasburgo del nuovo parlamento, non dovrebbero esservi troppi problemi. Il punto è che a Londra non sono mancate voci che parlano di un rinvio almeno fino a fine 2019, e a questo punto le cose si complicherebbero non poco.

Il più rassicurante è il servizio giuridico del Parlamento Europeo, il quale, in un parere interno rivelato dal Financial Times, sostiene che vi sia «la possibilità per il Parlamento Europeo di esser costituito in modo valido dopo le elezioni europee senza effetti se il Regno Unito rinuncia a organizzare elezioni». In realtà, però, sono in molti ad avere forti dubbi: il trattato Ue parla chiaro, ogni Stato membri deve partecipare alle elezioni europee e dunque organizzare il voto sul proprio territorio.

Danuta Hübner, eurodeputata popolare polacca e membro del gruppo europarlamentare che si occupa di Brexit, è molto netta. Un rifiuto da parte di Londra di organizzare il voto «costituirebbe una violazione dei trattati Ue della legge elettorale Ue e può esser portato di fronte alla Corte di giustizia europea».

Il rischio sarebbe insomma proprio quello di invalidare l'intero voto delle Europee a livello Ue. Secondo Hübner, l'unico modo per evitare problemi sarebbe modificare i trattati, ma questo richiederebbe un sì unanime di tutti gli Stati membri con relative ratifiche. «E non c'è tempo, dunque non è fattibile» insiste la polacca. Con Hübner sono vari alti funzionari Ue che preferiscono non comparire. Per lei la questione si pone se il Regno Unito sarà ancora membro dopo la data delle elezioni, dunque dopo il 23 maggio. Un tempo risicato.

Sarebbe anzitutto un caos organizzativo: il Parlamento Europeo ha già deliberato, con la conferma dei leader Ue, una modifica del suo assetto per tener conto dell'uscita del Regno Unito. Così il Parlamento scende dagli attuali 751 seggi a 705. Dei 73 seggi britannici, 46 saranno tenuti di «scorta» per futuri allargamenti. Altri 27 sono ripartiti tra gli Stati membri rimasti. Per la cronaca, questo vuol dire un aumento di tre seggi per l'Italia (che passa da 73 a 76), come per l'Olanda (da 26 a 29). Spagna e Francia sono i principali beneficiari, con cinque seggi in più ciascuna (rispettivamente da 54 a 59 e da 74 a 79). L'Irlanda aumenta di due seggi (da 11 a 13), di un seggio Polonia, Romania, Svezia, Austria, Danimarca, Slovacchia, Finlandia, Croazia ed Estonia. Tutti gli altri, Germania inclusa (che comunque ne ha già 96), rimangono allo stesso livello.

Se i britannici partecipassero al voto, tutta questa riorganizzazione dovrebbe essere rinviata alla Brexit eccessiva, con non pochi problemi. Ad esempio si dovrebbero fare elezioni suppletive in quegli Stati, come l'Italia, che aumentano i seggi una volta che Londra sia davvero uscita dall'Ue.

L'incubo però è soprattutto di natura politica. Proviamo a immaginare come sarebbe una campagna elettorale in un Regno Unito che ha votato per uscire ma è ancora dentro, soprattutto sul fronte dei Brexiteers. Nigel Farage, ex leader dell'Ukip, si dice già pronto alla campagna.

«Quel che non permetteremo che succeda - ha tuonato via Twitter il leader dei Liberali europei Guy Verhofstadt, rappresentante del Parlamento Europeo nei negoziati Brexit - accordo o non accordo, è che il caos della politica britannica venga di nuovo importato nella politica europea». Oltretutto proprio in un elezione particolarmente delicata, con l'avanzata dei partiti nazionalistici, euroscettici e anti-establishment. La ciambella di salvataggio cui stanno pensando varie cancellerie è un protocollo aggiuntivo, dal valore altamente legale, da aggiungere al Trattato Ue che potrebbe esser ratificato molto in fretta dagli Stati membri. Si vedrà. La suspence rimane.

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