martedì 16 gennaio 2024
Per la prima volta, palesemente, gli ayatollah hanno deciso di scendere in campo colpendo, come fanno altri, le posizioni ostili in Paesi terzi. Che cosa significa
La protesta a Erbil, nel nord dell'Iraq, dopo l'attacco missilistico di Teheran: la popolazione accusa l'Onu di inazione

La protesta a Erbil, nel nord dell'Iraq, dopo l'attacco missilistico di Teheran: la popolazione accusa l'Onu di inazione - Reuters

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Dopo la guerra per procura, nasce un’altra figura nel panorama della geopolitica senza limiti dei giorni nostri: la sovranità a geometria variabile. L’ha teorizzata l’Iran dopo il lancio di missili sulla Siria e su postazioni "filo-israeliane" in Iraq. Due Paesi sovrani, certamente alleati, ma ricettacolo di nemici (dal Daesh in giù) da colpire. Ha detto infatti Teheran, per giustificarsi o meglio dare un segnale più che chiaro: l'Iran «rispetta la sovranità e l'integrità territoriale degli altri Paesi», ma allo stesso tempo sta usando il suo «diritto legittimo e legale per scoraggiare le minacce alla sicurezza nazionale».

Tradotto in termini pratici, se lo fanno gli altri perché non dobbiamo farlo noi. In un’ottica da Far West e di giustizia fai da te potrebbe funzionare, come funziona però realmente in un Far West giuridico internazionale e con un organismo come il Consiglio di sicurezza dell’Onu paralizzato da decenni dai veti incrociati. Così Israele bombarda a Damasco, risponde a Hezbollah dopo averlo però colpito unilateralmente per anni prima fermando ogni carico di armi. Per questa ragione gli americani colpiscono il “proxy” degli ayatollah in Yemen, cioè gli Houthi e così si potrebbe andare avanti ancora per decine di righe elencando i raid palesi o camuffati compiuti in questi anni e accelerati in questi mesi. Qualcuno la chiama escalation, altri più prosaicamente regolamento di conti godendo dell’impunità totale. Così l’Iran bombarda in Siria per la prima volta palesemente, lo stesso lo fa in Iraq sollevando le ire (molto di facciata) del governo amico di Baghdad che non poteva fare altrimenti dopo aver chiesto il ritorno degli ultimi soldati americani dal suo territorio dopo l’esecuzione, con i missili, di due leader sciiti filo-iraniani una settimana fa.

Così preoccupano il Mar Rosso come focolaio di escalation, il Libano per le azioni di Hezbollah: il tutto in un processo di accelerazione che ha reso mai così instabile l’intera regione mediorientale. L’impunità e la libertà di azione sono sempre stati tra gli ingredienti fondamentali del caos geopolitico, predisposti ad alterare l’equilibrio instabile che regola confini e alleanze a est della costa mediterranea. L’Onu non può far nulla, gli Usa di Joe Biden fanno trapelare l’“insofferenza” nei confronti delle azioni del governo Netanyahu a Gaza e altrove nello scenario più prossimo, ma il presidente è alle prese con una campagna elettorale che mai più dura di quest’anno si presenta negli Stati Uniti. La Russia continua a soffiare sul fuoco, tenendo caldo uno scenario che raffredda sull’altro fronte le opinioni pubbliche e nelle prese di posizione e di aiuto il conflitto ucraino. Pechino, alle prese con una crisi economica interna non sanata, guarda invece più a salvare lo status quo economico che ad agire, lasciando quindi fare. Insomma, non sarà forse ancora escalation, ma sotto traccia lo è ormai da tempo.

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