martedì 27 dicembre 2022
Le bande armate dominano ormai il Paese, eppure nemmeno l'omicidio della religiosa ha fermato l'attività della casa Kay Chal che a settembre ha riaperto per accogliere 300 adolescenti
La violenza paralizza gran parte della capitale, Port-au-Prince, dove gli abitanti cercano disperatamente di andare avanti

La violenza paralizza gran parte della capitale, Port-au-Prince, dove gli abitanti cercano disperatamente di andare avanti - Ansa

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«Kay Chal se nou, nou se Kay Chal», «Casa Carlo siamo noi, noi siamo Casa Carlo». Non è solo la scritta dipinta sul muro del centro a ridosso di Cité Okay, baraccopoli spartiacque tra Delmas 31 e Cité Soleil. «È la materia di cui è fatta Kay Chal. Per questo non poteva chiudere», spiega suor Bruna Faldi, responsabile delle Piccole sorelle del Vangelo. Dall’inizio di settembre, il cancello senza guardie armate della struttura ha riaperto per accogliere circa trecento ragazzini della baraccopoli, «senza Luisa eppure con Luisa», dice Marta Aspesi, giovane volontaria milanese che ha contribuito alla sua ricostruzione, dopo il catastrofico sisma del 2010, insieme a Luisa Dell’Orto.

Un sogno realizzato grazie al sostegno di Caritas italiana con i fondi raccolti dalla maxi-colletta della Conferenza episcopale italiana (Cei). Per tutti, la piccola sorella originaria di Lomagna, nella provincia lombarda di Lecco, era il pilastro della “Casa”. Con il suo brutale omicidio, appena fuori dal quartiere, lo scorso 25 giugno, sembrava naturale, dunque, che l’edificio crollasse.

Non è, però, accaduto. «Perché Luisa non ha mai agito da sola. Non lavorava per gli haitiani ma con gli haitiani. Non si limitava all’assistenza bensì accompagnava nella crescita – racconta Marta che è stata al suo fianco tra il 2014 e il 2017 e, dopo il rientro, ha continuato e continua a seguire il progetto a distanza –. Ogni decisione era condivisa e portata avanti insieme agli animatori. Una ventina di persone che il pomeriggio donava gratuitamente il proprio tempo per fare giocare i bambini, aiutarli a fare i compiti e insegnare ai restavek».

Una parola quest’ultima cruciale nella vita di Luisa e dell’intera isola. Si chiama così l’esercito di mezzo milione di baby-schiavi domestici: bimbi delle famiglie più vulnerabili delle campagne affidati a parenti o conoscenti che li trasformano in servi tuttofare.

Kay Chal cercava di spezzare le loro catene con l’istruzione. E continua a farlo. A prendere in mano le redini della struttura è stato il gruppo degli animatori più esperti: tre ragazzi – di cui non vengono rivelati i nomi per ragioni di sicurezza – tra i 18 e i 37 anni. Grazie a loro Kay Chal ha ripreso le attività educative dall’inizio del nuovo anno scolastico e da dicembre le lezioni per i restavek, in controtendenza con il resto dei centri educativi e delle scuole del Paese. La violenza, diventata ormai a tutti gli effetti un conflitto urbano, li ha costretti a non riaprire dopo la pausa estiva.

Tuttora, un terzo delle strutture è bloccato e molti ospitano gli oltre 155mila “profughi delle gang”. Persone che hanno dovuto lasciare i propri quartieri per la pressione delle bande armate, diventate ormai l’unica autorità nel vuoto istituzionale.

Dall’omicidio del contestato presidente Jovenal Moïse, il suo posto è stato occupato dal premier Ariel Henry che governa per decreto dato che non ci sono più rappresentanti eletti per il continuo rinvio del voto. L’esecutivo non ha, però, il controllo del Paese, in mano ai gruppi criminali. Questi ultimi esistono da decenni, come espressione del malessere dei giovani e giovanissimi delle baraccopoli della nazione più povera d’Occidente.

Da qualche tempo, però, non sono più formazioni di disperati che vanno avanti con estorsioni e furti. Ora sono organizzazione strutturate e dotate di armi sofisticate, non certo di produzione locale. A metterle nelle mani dei ragazzi delle gang un complesso sistema di traffico internazionale che, secondo vari analisti, non potrebbe avvenire senza la complicità delle élite politiche. Per queste ultime, le bande rappresentano “eserciti privati” da utilizzare contro i rivali e, spesso, la popolazione.

La situazione è, comunque, sfuggita completamente di mano. Perfino per un Paese “assuefatto” alle catastrofi come Haiti. I dati sono senza precedenti: solo a novembre ci sono stati 280 omicidi, il record assoluto, secondo l’Onu. I sequestri registrati finora sono 1.200, il doppio rispetto al 2021, gli stupri sono all’ordine del giorno, la metà della popolazione soffre la fame.

In questo clima è stata assassinata suor Luisa, dopo vent’anni di missione nell’isola, «come si muore ora ad Haiti, senza un perché», aggiunge Marta. E in questo clima Kay Chal è più necessaria che mai. «È l’unico spazio in cui i ragazzi possono ritrovarsi, giocare, studiare. A casa non hanno nemmeno un tavolo e una sedia. È la sola alternativa all’inedia. Gli haitiani la chiamano “m’ap chitá”, il far niente che uccide la creatività e il futuro».

Sono alienazione, miseria e ingiustizia a spingere gli adolescenti tra le braccia letali delle formazioni armate. Carne da cannone in una guerra al confine tra i conflitti anomali del XXI secolo e le contese feudali. Una guerra che il mondo non vuole vedere. Uno spiraglio è ora il recentissimo piano firmato da Henry insieme ai rappresentanti dei partiti politici, della società civile e il settore privato per una transizione pacifica fino al voto del 2024. Nel frattempo gli haitiani provano a resistere. «Kenbe fém – scriveva suor Luisa –, tenere duro, è il più nell’augurio che si fa e si riceve nel Paese. Kenbe fém è la virtù della forza interiore. Un intero cammino di vita».

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