lunedì 1 luglio 2019
Il no a Timmermans di Italia e blocco dell’Est congela la situazione. Martedì i leader tornano a Bruxelles. Rivolta dei popolari contro la linea Merkel. Furibondo Macron: «È un fallimento»
Nomine, il vertice della (dis)Unione
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Sembrava quasi fatta. Poi quando, dopo quasi venti ore di negoziato, i 28 leader si ritrovano seduti intorno a un tavolo, questa mattina, la creduta intesa si sfalda. Al centro è il socialista olandese Frans Timmermans, perno dell’intesa raggiunta già al G20 di Osaka dai leader delle tre principali famiglie politiche (Angela Merkel per i Popolari, Pedro Sanchez per i Socialisti, Emmanuel Macron e l’olandese Mark Rutte per i Liberali). Ma sono troppi i leader contrari, i quattro di Visegrad (Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia e Ungheria), viste le dure posizioni dell’olandese sulle violazioni dello Stato di diritto in Polonia e Ungheria.

Ma, su tutti, c’è uno dei maggiori Paesi fondatori: l’Italia. Perché proprio Roma alla fine è stata tra i Paesi decisivi a silurare la quasi intesa, come ha riconosciuto anche Angela Merkel. «Votare contro l’intero gruppo di Visegrad – ha spiegato la cancelliera – e un Paese come l’Italia, quindi contro 100 milioni di abitanti europei, sarebbe davvero difficile, potrebbe portare a tensioni». E così rieccoci a questa mattina: una nuova riunione è convocata alle 11, con possibilità di prosieguo fino a sera, dopo nuove intense consultazioni continuate durante la notte.

Lo schema che era stato elaborato in mattinata prevedeva Timmermans, anche lui «Spitzenkandidat» (candidato di punta) alle Europee, al timone della Commissione. I popolari avrebbero incassato il Consiglio Europeo con la bulgara Kristalina Georgieva (ora direttore della Banca Mondiale) e il Parlamento Europeo con Manfred Weber, i liberali l’Alto rappresentante Ue con il belga Charles Michel o la danese Margrethe Vestager, più il posto di primo vice presidente della Commissione. Il pacchetto aveva vari vantaggi: si manteneva l’idea di uno «Spitzenkandidat» e si «compensavano» i Popolari, confermati primo gruppo al Parlamento Europeo, con due cariche di cui una di peso. E c’era in più una donna, e dell’Est. Una modifica rispetto all’intesa di Osaka, che invece prevedeva per un liberale (Charles Michel o Mark Rutte) il Consiglio e una popolare come Alto rappresentante (si parlava della bulgara Mariya Gabriel). La "compensazione" al Ppe era stata studiata per rispondere alla rivolta di vari leader popolari, al loro pre-vertice che domenica aveva preceduto il Consiglio Europeo. Le speranze erano alimentate dall’apertura di uno dei big Ppe, il premier bulgaro Bojko Borissov, che si è fatto riprendere in un cordiale incontro a tu per tu con Timmermans all’ambasciata olandese.

Il pacchetto, mal preparato e non sostenuto dal presidente uscente del Consiglio Europeo Donald Tusk, non ha retto all’impatto della plenaria. «Credevo ci fossimo quasi, poi, dopo mezz’ora di discussione a 28, ho capito che sbagliavo», racconterà Rutte. Molti leader hanno avuto l’impressione di trovarsi davanti, come ha detto il premier Giuseppe Conte, a un «muro franco-tedesco», un tentativo di imporre un’intesa precotta. Soprattutto, l’opposizione a Timmermans si è rivelata molto più resistente del previsto. «L’abbiamo guidata noi con Conte», ha spiegato soddisfatto, al termine della riunione, il premier polacco Mateusz Morawiecki. Con loro, gli altri "Visegrad" e vari altri Stati soprattutto dell’Est, si parla di una decina. Varsavia e Roma avevano cercato anzi di far passare un voto segreto.

Secondo Borissov, un altro elemento che ha fatto saltare il piatto è stata l’insistenza dei leader liberali a rispettare il patto di Osaka, che dava a loro la presidenza del Consiglio Europeo, silurando così la Georgieva. Insomma un fiasco totale, «un fallimento – ha detto furibondo Macron lasciando l’Europa Building –, una pessima immagine per l’Europa». «Mentre alcuni leader cercavano una soluzione – ha sibilato il premier socialista Antonio Costa, coinvolto nei pre-negoziati sulle nomine – altri si sono fatti irretire da quelli che vogliono dividere l’Europa, come i Visegrad o le posizioni di Matteo Salvini». Anche Sanchez si è detto «frustrato», adesso sarà molto più difficile trovare una soluzione», e ha puntato il dito contro il Ppe: «Non ha mantenuto i patti», tuona. E in effetti ieri sera fonti popolari facevano sapere che il partito torna ora a insistere per la Commissione, seppellendo l’intesa di Osaka e di fatto scaricando Merkel. Tusk è deciso: domani, martedì, si vota, anche se Berlino insiste in una soluzione con il massimo consenso possibile. In teoria, secondo le regole Ue, bastano 21 Paesi pari al 65% della popolazione, ma, avverte Merkel, «non si può decidere una cosa così a risicate maggioranze». Vasto consenso, non unanimità: nel 2014 Juncker fu scelto con il no di Londra e di Praga. Ma potrebbe servire ancora un altro vertice.

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