lunedì 17 aprile 2023
Il tasso medio Ue di occupazione delle persone disabili è superiore al 50%. Nel nostro Paese è appena del 35,8%
Ancora pochi i lavoratori iscritti alle categorie protette inseriti in azienda

Ancora pochi i lavoratori iscritti alle categorie protette inseriti in azienda - Archivio

COMMENTA E CONDIVIDI

È ancora lontano il tasso di occupazione dei disabili in Italia rispetto alla media dell'Unione Europea. Su 100 persone di 15-64 anni che pur avendo limitazioni nelle funzioni motorie e/o sensoriali essenziali nella vita quotidiana oppure disturbi intellettivi o del comportamento sono comunque abili al lavoro, solo il 35,8% è occupato. Il tasso medio Ue di occupazione delle persone disabili è invece superiore al 50%. Nel nostro Paese ci sono circa un milione di persone disabili disoccupate o in cerca del primo impiego, con probabilità assai scarse di trovare un posto in tempi ragionevoli. Il sistema pubblico di collocamento non riesce a realizzare più di 20/30mila inserimenti l’anno. I numeri sono ancora più drammatici per le donne che risultano fortemente svantaggiate rispetto agli uomini (quasi il 40% rispetto al 60%); se si osserva l’area geografica, lo squilibrio è ancora più grande: la Lombardia, da sola, occupa tante persone con disabilità quanto l’intera macro area Sud- Isole. Sebbene il percorso dell’inclusione lavorativa delle persone con disabilità ha una lunga storia, che parte da nessuna normativa specifica fino agli anni 60 (sebbene già la nostra Costituzione definisca chiaramente i principi di pari dignità sociale di tutti i cittadini - art. 3 - e il diritto al lavoro per tutti i cittadini - art. 4) a un primo testo di legge dedicato nel 1968 fino alla costituzione di un impianto normativo più definitivo e completo solo nel 1999 con la legge n. 68/99. A differenza delle precedenti norme, la legge 68/99 si è posta l’obiettivo di puntare alla qualità rilanciando il concetto di diritto così come inteso dalla Costituzione. La riforma, pur con lentezze e ritardi, ha avviato processi nuovi costruendo un sistema che, oltre a prevedere l’obbligo per le aziende pubbliche e private (a partire dai 15 dipendenti) di assumere quote di riserva (costituite da lavoratori con invalidità superiore al 45%) percentualmente rispetto alle loro dimensioni, ha introdotto nuovi modelli di valutazione di competenze dei lavoratori con disabilità iscritti nelle “categorie protette”, affinché i propri profili professionali potessero incrociarsi con quanto richiesto dalle aziende, riuscendo effettivamente a consentire alla persona con disabilità di sentirsi “la persona giusta al posto giusto”, anche con la massima soddisfazione del proprio datore di lavoro. Ma per raggiungere tali risultati bisogna partire da alcuni punti basilari, qual è sicuramente la formazione professionale per le persone con disabilità, onde garantire effettivamente la possibilità per tali lavoratori di ricoprire profili professionali adeguati anche alle richieste del mercato.

Il ritardo delle imprese italiane

La capacità di curare e valorizzare ogni individuo presente in azienda – espressa con la formula Diversity, Equity & Inclusion – è un asset strategico irrinunciabile per raggiungere risultati superiori in termini economici, di innovazione e di fiducia della business community. Eppure le imprese italiane sembrano non averlo ancora capito, o quantomeno non riescono a concretizzare le generiche “buone intenzioni” (che pure si diffondono sempre di più) in azioni realmente incisive, anche a breve termine. È quanto emerge da Future of Work, la ricerca curata da Inaz – Osservatorio Imprese Lavoro e Business International – Fiera Milano, che si è concentrata sui temi della D&I con un sondaggio fra circa 100 Hr Director di aziende italiane curato da Fabrizio Lepri, docente di Gestione e Sviluppo delle Risorse Umane presso l’Università degli Studi di Roma Tre. «Abbiamo scelto un tema stimolante, complesso, che mette a confronto le generazioni e rientra nell’ambito più ampio della sostenibilità – spiega Linda Gilli, presidente e ad di Inaz –. Tema che, soprattutto, comporta un forte commitment da parte dei vertici aziendali. La diversità, infatti, spaventa. Nel tempo si sono accumulati molti strati di pregiudizio. E sul pregiudizio sono stati costruiti muri di diffidenza. Senza ricorrere a giri di parole, vanno abbattuti. Perché la diversità delle persone è un valore prezioso, che arricchisce le imprese e chi nelle imprese lavora». Sembra esserci ancora molto da fare per portare l’Italia su posizioni competitive per quanto riguarda l’inclusione e la valorizzazione delle diversità. La ricerca Future of Work 2022 conferma quanto da anni viene indicato dalle classifiche internazionali investigando per prima cosa sulle ragioni che spingono i vertici aziendali italiani a occuparsi di D&I: spicca la grande importanza che al tema viene attribuita sul piano etico (84% delle risposte), ma sono poco compresi i suoi risvolti in termini pratici, cioè di business (50% delle risposte) e fiducia della comunità finanziaria (42%). D’altra parte, una percentuale interessante di risposte viene però raccolta dalla voce Engagement, attraction e retention (64%): questo significa che sta crescendo nelle aziende l’attenzione alle generazioni più giovani, che sono più sensibili alle tematiche D&I. Per quanto riguarda poi le differenti aree di diversity, emerge che la maggiore attenzione viene posta su disabilità (78% delle risposte) e genere (76%), seguite dalle differenze generazionali (62%) e poi, a maggiore distanza, da orientamento sessuale, origine geografica e religione. Arriviamo poi alla domanda sul livello di strutturazione dei piani D&I e delle azioni messe in atto. Qui meno della metà delle aziende intervistate (46%) risponde di avere una pianificazione già presente; di quelle che hanno risposto di no, il 63% prevede però di elaborarne una nel prossimo futuro. Fra le azioni messe in campo dalle aziende spiccano quelle dedicate a contrastare la disparità di genere (76% delle preferenze), disparità che si manifesta principalmente nello sbilanciamento di responsabilità e retribuzioni fra uomini e donne. In questo ambito salta all’occhio però che solo il 44% delle aziende intervistate monitora in modo sistematico il gender pay gap e solo il 38% fa effettivamente qualcosa per ridurlo; per contro, le aziende dichiarano di concentrarsi di più nell’incrementare il numero di donne in ruoli manageriali (il 60% ha azioni in corso in questo senso). «Complessivamente – riassume il professore Lepri – i dati che emergono dalla survey sembrano indicare un importante ritardo nei risultati sulla parità di genere nelle aziende, in linea con i dati pubblicati in un report del 2022 dal World Economic Forum, in cui l’Italia figura al 63esimo posto nella graduatoria basata sul ranking conseguito nel Kpi denominato Global Gender Gap Index. Al tempo stesso, però è abbastanza o molto diffusa la consapevolezza sulla necessità di mettere in campo azioni specifiche finalizzate ad attenuare gradualmente il gap riscontrato». Dunque, anche in ragione dei profondi cambiamenti portati dalla pandemia – che ha per certi versi aumentato l’attenzione delle persone verso il benessere e la realizzazione in ambito lavorativo – pur tra incertezze e battute d’arresto il futuro sarà modellato dalla spinta di nuove leve, i Millennials e la Gen-Z, che portano nuovi valori: «Un aspetto – sottolinea Gilli – che evidenzia, se ancora ve ne fosse bisogno, come le aziende siano composte primariamente da persone. Individui di cui bisogna prendersi cura e che bisogna ascoltare e comprendere con attenzione per poter permettere loro di esprimere a pieno il proprio potenziale, al fine di renderli soddisfatti e felici nell’essere parte dell’impresa in cui operano, offrendo a quest’ultima un reale valore aggiunto di crescita e sviluppo».

La ricerca giusta per il posto giusto

Siamo sicuri che le numerose aziende che dichiarano di non trovare personale stiano cercando nel modo corretto e stiano sfruttando tutti i canali a disposizione? Siamo sicuri che adempiere a tutti gli obblighi di legge in fatto di quote rosa o categorie protette sia sinonimo di inclusività? E ancora, siamo certi di riuscire a individuare le corrette e reali competenze di ogni candidato? Purtroppo, nella maggior parte dei casi, la risposta a questi quesiti è quasi sempre no perché ci sono una serie di bias e pre-giudizi che è veramente complicato (se non impossibile) eliminare quando si cerca il talento nelle figure professionali. La D&I non è ancora attualità nella gran parte dei percorsi di selezione odierni, sia nelle piccole che nelle medio-grandi aziende, ed è spesso legata ad azioni di marketing e branding più che alla ricerca del Valore nelle persone. «Nessuno – precisa Laura Pino, Key Account Manager di JHunters, brand di Hunters Group – può dichiararsi immune a quei pregiudizi che potremmo definire inconsci: ci sentiamo più vicini, ad esempio, a coloro che hanno frequentato la nostra stessa università, vivono vicino a noi o hanno il nostro stesso hobby. È una cosa che potremmo considerare normale, ma che in realtà in fase di selezione può portare a commettere gravi errori di valutazione. Per questo motivo, Hunters Group ha elaborato, per la prima volta in Italia, un processo di recruiting che permetta di valutare un candidato focalizzando l’attenzione prettamente su aspetti legati al ruolo e al contesto aziendale, escludendo a priori eventuali bias che possano influenzare l’intero iter. Il processo è stato oggetto di certificazione, attraverso un percorso unico sul territorio nazionale. Si vuole focalizzare l’attenzione, quindi, sull’aspetto più importante e l’unico che dovrebbe contare in ciascun professionista: le competenze». Va sviluppato un vero e proprio processo di ricerca e selezione che punti all’occupabilità della diversità in azienda, rendendo quest’ultima sostenibile e – perché no – redditizia. Se già da alcuni anni negli Stati Uniti – e più recentemente anche in Finlandia – alcuni elementi legati alla sfera privata dei candidati sono omessi volontariamente nel cv per lasciare spazio al percorso professionale, all’esperienza maturata e alle competenze acquisite, un ulteriore passo in avanti è rappresentato dalla possibilità di individuare le competenze caratterizzanti del candidato, talvolta sviluppate proprio all’interno di un contesto e di un vissuto lontano da quello del selezionatore coinvolto. All’inizio può essere fuorviante non vedere, per esempio, in apertura del curriculum, i classici dati personali, ma rapidamente ci si rende conto di come alcune informazioni, in realtà, non servano e anzi rischiano di creare un pregiudizio (negativo o positivo) inutile ai fini della selezione. «Un corretto iter di selezione – conclude Pino – garantisce un ritorno sull’investimento iniziale; al contrario, invece, una selezione errata continuerà a generare perdite. Sostituire un dipendente può costare fino al 50% della sua retribuzione annua lorda tra iter di ricerca e tempi di preavviso. Non dimentichiamo, poi, che risorse inadatte potrebbero mettere a rischio la produttività, compromettere il benessere dei colleghi e, di conseguenza, anche il business. Ed è per questo che sbagliare non è un’opzione».

Torna la "Digital Diversity Week"

Dopo il successo delle prime due edizioni, dal 17 al 21 aprile torna la Digital Diversity Week, l'evento dedicato all'incontro tra aziende e candidati con disabilità e appartenenti alle categorie protette. L'evento è nato dalla partnership tra Jobmetoo by Seltis Hub e Start Hub Consulting con l'obiettivo di facilitare l’incontro tra aziende e persone in target in cerca di lavoro. Anche la III edizione della Digital Diversity Week si svolgerà in modalità interamente digitale, attraverso cinque giornate dedicate al recruiting e all’employer branding.

Buone prassi legate all'autismo

In concomitanza con il mese della consapevolezza sull’autismo, Alkemy, Auticon e Agos avviano una collaborazione che ha l’obiettivo di promuovere un innovativo modello di business fondato sul concetto di inclusione. Il sodalizio nasce con l’obiettivo di supportare Agos nella migrazione dei programmi di Business sul nuovo Dwh (Data warehouse). Alkemy sarà affiancata dai consulenti informatici di Auticon, prima azienda in Italia ad impiegare esclusivamente persone nello spettro dell’autismo, che interverranno in qualità di sviluppatori software e analisti dati. Al contempo, la società lavorerà alla riscrittura e ottimizzazione dei programmi oggetto di migrazione, avvalendosi degli esperti Auticon, in particolare per le fasi di implementazione e testing dei progetti da modificare. Il team di consulenti Auticon è formato da risorse con skill cognitive particolari che garantiscono un vantaggio competitivo, ottenendo in tempi rapidi risultati precisi, con un limitato margine di errore. L’iniziativa, in linea con l’obiettivo dell’Agenda Onu 2030 di «ridurre le disuguaglianze e promuovere l’inclusione sociale» e nata all’interno del programma Diversity & Inclusion – D&I – di Agos, dimostra l’impegno di Alkemy, Auticon e Agos di favorire una cultura aziendale diversificata, equa e inclusiva che genera valore a lungo termine, creando nuove opportunità professionali a beneficio delle organizzazioni aziendali.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: