martedì 4 agosto 2009
Visitando l’Uganda fra il 31 luglio e il 2 agosto del 1969, Montini esortò gli africani a essere protagonisti del loro cammino sociale e spirituale
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La prima volta di un pontefice in terra africana ha il volto di Paolo VI e del popolo ugande­se. Quarant’anni fa, di questi giorni, papa Montini era nel cuore – non so­lo geografico – del continente nero per il suo ottavo pellegrinaggio in­ternazionale. Una visita al solito bre­ve e intensa, secondo il suo stile: dal 31 luglio al 2 agosto. In Africa c’era già stato, da arcive­scovo di Milano, visitando la Rhode­sia, la città sudafricana di Pretoria, la Nigeria e il Ghana, dal 19 luglio al 19 agosto 1962. Un viaggio pastorale che l’aveva portato nelle missioni, ma pure fra i cantieri di tanti lavoratori milanesi impegnati in quelle terre. I­noltre, da Papa, nell’ottobre 1964, al­la presenza dei Padri conciliari, ave­va canonizzato a Roma i ventidue martiri cattolici ugandesi beatificati da Benedetto XV, il più noto dei qua­li, Carlo Lwanga, era stato arso vivo, insieme a cristiani di altre confes­sioni, nel 1886, a Namugongo. Proprio là dove nel suo viaggio in Ugan­da del 1969, Paolo VI volle consacra­re l’altare del grande santuario eret­to sul luogo del martirio, in uno dei più solenni momenti della «trasfer­ta » iniziata all’aeroporto di Entebbe nel pomeriggio del 31 luglio dopo un volo di sei ore, lanciando il messag­gio «Dio benedica l’Africa!». «Voi po­tete star certi che la Chiesa non ri­marrà una spettatrice passiva», di­chiarò subito all’arrivo. E citati bra­ni dell’enciclica Populorum progres­sio (sulla lotta alla miseria e all’in­giustizia, sulla promozione del pro­gresso materiale e spirituale), af­fermò: «Possa la Nostra presenza qui, per l’intercessione dei Santi Martiri dell’Uganda, dare inizio all’immen­so movimento di amore fraterno, che trasformi la pace e il progresso dei popoli da meta ideale a trionfante realtà». Poco dopo papa Montini entrava nella Cattedrale di Kampala, atteso da cinque capi di Stato e dai vescovi africani riuniti dal primo Simposio delle Conferenze episcopali di Africa e Ma­dagascar, presto colpiti dal suo di­scorso, un inno alla maturità della loro Chiesa. «Voi africani siete ora­mai i missionari di voi stessi. La Chie­sa di Cristo è davvero piantata in que­sta terra benedetta», affermò, pur de­finendo quella della presenza dei missionari «una storia, che ancora dura e deve durare per lungo tempo, anche se voi africani ne prendete o­ra la direzione». E spiegò: «Missio­nari di voi stessi: cioè voi africani do­vete proseguire la costruzione della Chiesa in questo continente...». Pareva allora uno slogan, un azzar­do: si rivela decenni dopo un’indica­zione profetica. In Africa si può du­bitare ancora di molte cose: non però del passaggio dell’iniziativa missio­naria ad gentes dalle antiche alle gio­vani Chiese; non delle risorse spiri­tuali dell’episcopato, del clero, del laicato africano. Certo restano anco­ra difficoltà nel declinare quella che Montini definì la via corretta dell’ag­giornamento e dell’inculturazione. Come ovunque: «Non siamo noi gli inventori della nostra fede; noi siamo i custodi. Non ogni religiosità è buo­na, ma solo quella che interpreta il pensiero di Dio, secondo l’insegna­mento del magistero apostolico, sta­bilito dall’unico maestro, Gesù Cri­sto. Ma, data questa prima risposta, viene la seconda: l’espressione, cioè il linguaggio, il modo di manifesta­re l’unica fede può essere moltepli­ce e perciò originale e conforme al­la lingua, allo stile, all’indole, al ge­nio, alla cultura di chi professa quel­la unica fede. Sotto questo aspetto un pluralismo è legittimo, anzi au­spicabile». L’1 agosto Paolo VI continuava il viaggio a Kololo Terrace per la con­sacrazione di dodici vescovi africa­ni – il numero degli apostoli – ri­chiamati nell’omelia alle loro re­sponsabilità. «Voi dovete costruire la Chiesa» e anche «prestare il vostro servizio per aiutare la costruzione della società civile, sebbene liberi da impegni politici e da interessi tem­porali ». Nello stesso giorno altri in­terventi nella linea della «Chiesa e­sperta in umanità». Con papa Mon­tini – su invito del presidente ugan­dese Milton Obote – in Parlamento a Kampala, a parlare di pace e di svi­luppo invitando a non temere la Chiesa: «Ella nulla vi toglie; e vi por­ta, con il suo sostegno morale e pra­tico, l’unica, la vera, la somma inter­pretazione della vita umana nel tem­po e oltre il tempo, quella cristiana». Rivolto poi a deputati e senatori os­servò in questa luce i problemi della libertà dei territori nazionali e dell’uguaglianza delle razze. Mentre in­contrando i diplomatici indicò Cristo come «il principe della pace». Si sof­fermò anche sull’Africa rurale, chie­dendo, dal piccolo villaggio di Men­go, cooperazione internazionale e aiuto allo sviluppo. Papa del dialogo, parlò sempre l’1 agosto anche ai rap­presentanti dell’islam indicando i be­nefici dell’unità e della pace tra tutti i figli dell’Africa, partecipi dello stes­so destino. Inaugurò un nuovo ospedale catto­lico a Ribaga e visitò quello di Mulo­go. Né dimenticò la missione dei lai­ci incontrando membri dell’Azione cattolica: «L’Africa deve trovare e di­mostrare nuove e originali forme di espressione e di organizzazione dei laici. Allo stesso tempo non deve tra­scurare la secolare esperienza di mol­ti e ben affermati movimenti di altre parti del mondo». Ricordò loro an­cora il sacrificio dei martiri ugande­si, oggi ritenuti i protettori dell’Afri­ca moderna, speranza per la Chiesa universale. E proprio alla comme­morazione di essi – tra i quali anche degli anglicani associati nel ricordo oltre l’esclusivismo di una santità cat­tolica – dedicò il 2 agosto una gior­nata di memoria e di ecumenismo: «Nello spirito di ecumenismo dei martiri, noi non possiamo risolvere le nostre differenze attraverso una semplice riconsiderazione del pas­sato, o un giudizio su di esso. Invece, noi dobbiamo andare avanti nella fi­ducia che ci verrà data nuova luce per guidarci alla nostra meta». Negli stessi giorni anche un tentati­vo di mediazione per la risoluzione del conflitto fra Nigeria e Biafra, con etnie in lotta per motivi tribali e il controllo dei giacimenti petroliferi. Colloqui riservatissimi nei quali – commentò Federico Alessandrini, 'colonna' de L’Osservatore Romano, alla fine del viaggio – il Papa diplo­matico aveva «sempre parlato aper­tamente, guardando fisso l’interlo­cutore, quasi a sondarne lo spirito».
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