sabato 25 aprile 2020
Il presidente della Commissione Cei per l’ecumenismo e il dialogo: in questo momento possiamo capire meglio che siamo davvero fatti gli uni per gli altri, che non viviamo solo per noi
Il vescovo Spreafico

Il vescovo Spreafico - Boato

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La parola chiave è “insieme”. L’invito è a non avere paura. L’impegno è per una testimonianza comune, sia in ambito spirituale che sul terreno della prassi. La drammaticità del tempo che viviamo ha spinto le Chiese a rafforzare le occasioni di incontro, a cercare nuove strade per il cammino ecumenico. Particolarmente significativo in questo senso il Messaggio pasquale condiviso dal vescovo Ambrogio Spreafico (presidente della Commissione episcopale per l’ecumenismo e il dialogo della Cei), dal metropolita Ghennadios (arcivescovo ortodosso d’Italia e Malta ed esarca per l’Europa meridionale) e dal pastore battista Luca Maria Negro (presidente della Fcei, Federazione delle Chiese evangeliche in Italia). Nel momento più acuto della crisi, le comunità cristiane del nostro Paese hanno voluto sottolineare con forza la vocazione a vivere autenticamente da sorelle e fratelli, «a essere insieme, attenti alle necessità di tutti e particolarmente degli ultimi, dei poveri, degli emarginati». La pandemia come occasione per guardarsi dentro, come richiamo al dovere di recuperare e valorizzare ciò che conta davvero. «Nel messaggio comune – sottolinea monsignor Spreafico vescovo di Frosinone–Veroli– Ferentino – è espresso abbastanza chiaramente che anche noi cristiani dobbiamo tornare alle cose essenziali, riscoprire il valore di essere fondati in Cristo Gesù, e quindi anche il senso di una fede che si radica nella storia, non chiusa nel particolare. Il fatto che un virus venuto da lontano abbia invaso il mondo è un invito a guardare al di là dei nostri confini, che non sono solo confessionali ma si trovano all’interno delle stesse Chiese e qualche volta persino delle parrocchie. Questo tempo ci richiama a uno sguardo che è quello di Gesù, che abbraccia la folla nella sua diversità, senza escludere nessuno».

Si potrebbe dire che la drammatica attualità che ci avvolge porti con sé un invito a essere vicini, a stare di più insieme.

In questo tempo che ci obbliga alla distanza stiamo riscoprendo la mancanza degli altri. Ci manca la comunità, ci mancano gli incontri, ci manca la preghiera e la celebrazione comune. Questo è il momento in cui capiamo di più che davvero siamo fatti gli uni per gli altri. Una fede solo individuale non esiste. Noi siamo popolo, come sottolinea spesso papa Francesco, e quindi viviamo il nostro credere nel popolo.

Un messaggio che vale anche per il dopo, quando la pandemia, speriamo presto, sarà finita o almeno si attenuerà.

Vorrei che l’esperienza che stiamo vivendo ci ricordasse, come ha detto il Papa nella sua bellissima preghiera del 27 marzo in una piazza San Pietro vuota, che «siamo tutti nella stessa barca ma con noi c’è Gesù», che ci rende un unico popolo. E questo vale anche per l’ecumenismo. Oggi siamo chiamati a riscoprire cosa vuol dire essere insieme, pur nella nostra differenza, a ritornare all’essenziale ciascuno nella propria Chiesa, superando quelle diversità che pure permangono. O almeno a interrogarci su come andare avanti nel cammino ecumenico.

In questo periodo ci sono stati parecchi momenti vissuti insieme dalle diverse denominazioni cristiane. Dal Padre Nostro ecumenico promosso dal Papa il 25 marzo, all’appello all’Europa di Comece e Kek perché non dimentichi i rifugiati, fino ai quattro giorni di preghiera e digiuno organizzati in Congo. Il dialogo è vivo.

In un momento così tragico per i tanti morti, soprattutto anziani e dobbiamo interrogarci su questo, stiamo verificando che davvero, come diceva Giovanni XXIII, è più ciò che ci unisce di quello che ci divide. Dobbiamo riscoprire l’unità intorno a Gesù e provare a capire se questi gesti vissuti insieme pur a distanza non debbano essere un grande impulso a un cammino più veloce verso la comunione. La preghiera è sempre una grande forza, che trasforma la storia e il mondo, anche chi prega da solo lo fa per e nella comunità e la sua preghiera si rafforza all’interno di essa e nell’unione con le altre comunità.

Di qui l’invito a non aver paura che è un po’ il cuore del vostro messaggio di Pasqua.

La paura è comprensibile ma noi siamo incoraggiati dalla presenza di Gesù. Mi colpisce sempre nel brano evangelico (della tempesta sedata ndr) commentato così bene dal Papa il 27 marzo, che nel bisogno i discepoli svegliano Gesù. E’ molto bello pensare che la nostra preghiera attiri la pazienza, la “compassione” di Dio e il suo amore verso di noi. Nella tempesta della vita essere sulla stessa barca con Gesù è un grande messaggio. Ma di quel brano evangelico mi colpisce anche che ci siano anche altre barche. In fondo l’invito di Gesù a non aver paura perché c’è lui, aiuta gli altri equipaggi a salvarsi, nel senso che noi con Gesù possiamo aiutare gli altri a salvarsi dalla tempesta e dalla paura. Noi non viviamo solo per noi, il cristiano vive nel mondo, non può guardare solo a se stesso, alla sua Chiesa e al suo piccolo gruppo. Deve avere uno sguardo universale, che gli fa vedere chi soffre più di noi. Penso in questo momento all’Africa, alla recente alluvione che ha colpito il Sud Kivu, di cui a parte la stampa cattolica non si è occupato nessuno.

Il messaggio ecumenico pasquale è stato una “prima volta” mentre è consueto quello in avvio della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Significa che questo tempo così particolare cambierà il modo di lavorare insieme?

Già con il mio predecessore alla guida della Commissione episcopale, monsignor Forte, e l’allora direttore dell’Ufficio don Bettega cui adesso è subentrato don Savina, è nato un gruppo ecumenico di lavoro e di confronto tra Chiese cristiane in Italia, che si raduna alla Cei. Mi sembra un grande esempio, di come si possa lavorare molto bene, trattando temi concreti, com’è stato per i migranti e l’ambiente. Credo che questo momento che ci fa riflettere insieme sarà certamente un grande aiuto per preparare il prossimo messaggio della Settimana.

Sotto il profilo ecumenico qual è il maggior insegnamento di questo periodo?

Credo che noi vescovi, pastori, parroci dovremmo coinvolgere di più il nostro popolo, far capire come ognuno nella sua Chiesa non sia isolato ma in comunione con gli altri cristiani. Nel nostro popolo è emersa tanta solidarietà verso il bisogno di tanta gente, sempre di più, che non possiamo sprecare e si deve valorizzare. Poi c’è un problema di educazione, di trasmissione di un’idea di fede vissuta con e per gli altri. Papa Francesco lo sottolinea continuamente. Un secondo messaggio è comunicare agli altri che i cristiani nel loro cammino verso l’unità non sono fuori dal mondo. Il cristianesimo vive e cresce nella storia. Come dice laLumen gentium, la Chiesa è “sacramento o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano”. In un mondo ancora tanto diviso dobbiamo testimoniare la forza del messaggio di cui come cristiani siamo portatori. Credo che quella che stiamo vivendo sia un’occasione per rafforzare il nostro impegno alla luce della Bibbia che nel libro della Genesi sottolinea come il grande sogno di Dio sia l’armonia tra le differenze e quindi l’unità della famiglia umana. Mi piacerebbe che emergesse di più nel nostro cammino ecumenico.

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