martedì 20 novembre 2012
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Saluto cordialmente i partecipanti al Convegno nazionale della Fondazione Migrantes, che si svolge nel venticinquesimo anniversario della sua costituzione (1987-2012). Un anniversario è occasione quanto mai opportuna per un momento di riflessione e per un rinnovato rilancio; risponde al bisogno di riscoprire le ragioni di un impegno e – prima ancora – della chiamata a servire il Signore della Chiesa nel vasto campo della mobilità umana. La coincidenza di questo incontro con l’inizio dell’Anno della fede, indetto da Benedetto XVI a cinquant’anni dall’apertura del Concilio Vaticano II, e la sua collocazione nel decennio che la Chiesa italiana sta dedicando all’impegno educativo, formulano l’invito a leggere la ricorrenza e a interpretare la vostra missione in questo tempo secondo un’ottica che è ben espressa dal tema di questo intervento: educare all’incontro alla scuola del Concilio. Siamo invitati a tornare sulla esperienza fondamentale del nostro servizio ecclesiale verso i migranti esaminandolo mediante la categoria dell’incontro, una categoria molto espressiva per la nostra fede se solo richiamiamo l’affermazione così pregnante con la quale papa Benedetto XVI la introduce nella sua prima enciclica: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Deus Caritas est, 25 dicembre 2005, n. 1). Ritornerò su questo punto, per il valore che assume nella riflessione sul nostro tema.
Mi pare doveroso sottolineare innanzitutto quanto sia significativo accostare il Concilio come una scuola. Esso è l’evento formativo per eccellenza della coscienza e della prassi della Chiesa di questo tempo; e la distanza di quasi mezzo secolo dalla sua apertura lo mostra con crescente evidenza. Esso è una scuola per il magistero che ha esercitato e consegnato ai documenti che ha prodotto, diventando punto di riferimento imprescindibile per tutti i credenti; lo è per l’esempio di comunione ecclesiale che ha visto realizzare dalla partecipazione e dalla condivisione di tutti i vescovi, come pure di laici e di osservatori, uniti al Papa; lo è – ancora – per la fede testimoniata e per l’atteggiamento manifestato nei confronti dell’umanità intera.
Il Concilio è stato esso stesso un incontro, un incontro straordinario che ha in qualche modo richiesto ai Padri di imparare a comprenderlo e a viverlo. Prima che avere da impartire un insegnamento specifico sull’incontro, il Concilio è nel suo insieme scuola di incontro. Perciò, pur potendo parlare di esso in diversi modi o a partire da punti di vista differenti, noi guardiamo all’incontro nell’ottica del Concilio, perché sulla sua scia è nato l’impegno per la pastorale delle migrazioni e in esso troviamo una guida sicura e di lungo respiro.
 
Parliamo di incontro in questa sede, intendendo con esso un preciso richiamo all’esperienza dei migranti, di quanti lasciano la propria terra per i più disparati motivi, spesso drammatici, e cercano un lavoro, una casa, una famiglia, una comunità, un futuro in luoghi per lo più remoti e sconosciuti. Tuttavia, proprio per intendere adeguatamente tale tipo di esperienza, bisogna considerare che in essa si esprime una dimensione umana fondamentale, la quale tocca non soltanto coloro che sono costretti o scelgono di emigrare, ma tutti gli esseri umani. Essa ha innanzitutto una connotazione antropologica, poiché esprime che l’uomo non può vivere da solo, ma nemmeno diventa mai se stesso se rimane in simbiosi con qualcuno. L’inizio dell’esistenza di un essere umano si dà nella forma di una separazione, di una rottura, di un trauma. Tale è la nascita: il distacco originario necessario per cominciare a essere se stessi.
Ma essere se stessi non equivale a essere soli; non c’è modo di sfuggire al distacco, ma non per essere divisi o separati, bensì distinti. Il punto di equilibrio nell’essere soli ma non separati, distinti ma non divisi, in altri termini tra solitudine e simbiosi, è la relazione. E relazione vuol dire comunicazione, legame, scambio, reciprocità. Non c’è vita umana senza relazione. Ora l’incontro non è altro che il punto sorgivo dell’esistenza intesa come essere e diventare se stessi dentro una rete di relazioni personali. Sì, perché essere se stessi ed essere in relazione sono simultanei e necessari. L’uno e l’altro non sono fenomeni impersonali o casuali, ma il frutto di una adesione e di una scelta. Può risultare illuminante, da questo punto di vista, leggere la nascita come quel taglio del rapporto simbiotico madre-figlio che rende possibile l’incontro e la relazione. Il neonato – forse già prima, ma certo al momento della nascita – si presenta come altro per la madre e reciprocamente questa lo diventa per il figlio; il processo di crescita si configura come il determinarsi di un incontro grazie all’affermarsi sempre più nitido della reciproca alterità e quindi di un rapporto, di una vera relazione tra persone diverse. Perché la persona si compia è necessario accettare e volere che l’altro sia altro da sé, riconoscerlo come tale e porsi dinanzi a lui con la propria personalità lasciando che egli si presenti con la propria.
Un incontro può avvenire per caso; anzi esso ha sempre, all’inizio, un carattere di sorpresa, di novità. E la ragione è semplice e necessaria: la persona non può essere costruita, prodotta, programmata, prevista; ha una originalità e unicità irripetibili. Perciò l’incontro si compie veramente solo quando diventa una scelta. Tante persone si incrociano nella vita (basti pensare alle immense folle anonime delle metropoli), ma solo quando si fermano, si conoscono e riconoscono, quando entrano in uno scambio di dono e di accoglienza, tra di esse si verifica un incontro. Nonostante tutto, insieme alla comunanza sussiste una incancellabile differenza, una componente di estraneità che solo l’incontro liberamente voluto e scelto può superare.
 
La fede cristiana ci insegna una verità fondamentale, e cioè che Dio ci ha creati per potersi incontrare con noi. Noi siamo fatti per l’incontro tra di noi perché siamo stati creati come esseri relazionali, per entrare e stare in relazione. Ciò che noi crediamo di Dio riguarda noi, ci tocca, parla di noi, corrisponde e spiega veramente la struttura del nostro essere umano. E l’iniziativa storica di rivelarsi a noi in Cristo e di salvarci per mezzo di lui non è altro che il disegno creativo giunto a compimento, pervenuto alla sua destinazione originaria. Dio ci ha creati per potersi incontrare con noi.
Il Concilio ci fa leggere questa nostra situazione – che diventa poi anche appello e compito – attraverso l’evento in cui è stato celebrato, attraverso i testi in cui è stato consegnato il suo insegnamento, attraverso l’attuazione e la recezione che ne è stata fatta nel corso di questi decenni. Punto di riferimento oggettivo rimangono proprio i documenti approvati, da accogliere e leggere nel loro insieme e tenendo conto della loro differente autorevolezza formale. Farò cenno soltanto a questi, e peraltro appena in termini generali. Ma ciò sarà sufficiente a delineare ai nostri occhi la grande scuola del Concilio. E a questo riguardo vorrei sintetizzare subito l’idea di fondo con l’affermazione che per imparare a incontrare l’altro bisogna lasciarsi innanzitutto incontrare da Dio. Bisogna stare attenti a non contrapporre questi due aspetti o a disporli in successione cronologica, per cui prima verrebbe l’una cosa e poi l’altra. È un ordine di priorità quello che vige tra i vari aspetti, ma in una unità circolare inesauribile.
Tenendo ferma questa circolarità ininterrotta, non ci è difficile cogliere una sequenza che, più che stabilire gerarchie, denota un ordine di priorità quanto a ciò che è essenziale e fondante. Senza doverci misurare qui con i complessi dibattiti degli studiosi, non facciamo fatica a trovare consenso con molti di loro se diciamo che nell’incontro di Dio con l’uomo – e viceversa – tutto comincia con il dono della rivelazione, con il quale Dio prende l’iniziativa nei confronti dell’uomo portandola a pienezza con il dono del Figlio (DV); nella Pasqua trova fondamento il culto perfetto, grazie al quale il battezzato si unisce all’offerta di Cristo, corrisponde all’incontro divino (SC) ed entra a far parte del suo corpo ecclesiale nel quale sperimenta la circolarità dell’incontro ordinato con i fratelli nella fede (LG); così egli prende coscienza della vocazione a offrire al mondo la testimonianza e il servizio della sua fede e della sua vita trasformata, andando incontro a tutti gli uomini nei quali riconosce l’intangibile dignità che viene dall’immagine di Dio e l’universale destinazione alla fraternità in Cristo (GS).
La sequenza così esposta delle costituzioni conciliari secondo una logica di scuola conciliare dell’incontro, lascia ancora spazio a una duplicità non pienamente superata tra l’incontro con Dio e quello con gli altri, peraltro a loro volta distinti tra i fratelli nella fede e gli altri. In questa maniera, però, si finirebbe con il conferire all’incontro con gli altri una connotazione moralistica se non sentimentalistica. La grazia di Dio servirebbe da risorsa spirituale e morale per poi trovare la forza di andare incontro agli altri. L’aiuto di Dio è irrinunciabile in ogni aspetto della vita del credente, ma esso ha innanzitutto lo scopo e consegue l’effetto di costituire un ambiente divino, una rete di relazioni di fede, una comunione d’amore in cui tutti gli incontri e le relazioni tra le persone si inseriscono e possono autenticamente vivere. L’incontro con Dio non è solo il primo e il principale in ordine di importanza; è quello nel quale possono avvenire e riuscire felicemente tutti gli incontri e le relazioni interpersonali umane. Per questo non può esserci dissociazione, perché l’incontro di Dio con l’uomo è l’inizio e la realtà della relazione che fa vivere ogni essere umano e, nello stesso tempo, l’ambiente in cui possono germogliare e sbocciare tutti gli incontri e le relazioni umane.
A mo’ di esempio possiamo cogliere l’orientamento così delineato nelle costituzioni conciliari con qualche semplice riferimento ai testi. Così si esprime la Dei Verbum al n. 2:
Piacque a Dio, nella sua bontà e sapienza, rivelare se stesso e far conoscere il mistero della sua volontà (cf. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della natura divina (cf. Ef 2,18; 2Pt 1,4). Con questa rivelazione infatti Dio invisibile (cf. Col 1,15; 1Tm 1,17) per la ricchezza del suo amore parla agli uomini come ad amici (cf. Es 33,11; Gv 15,14-15) e si intrattiene con loro (cf. Bar 3,38), per invitarli e ammetterli alla comunione con sé.
 
L’iniziativa di Dio raggiunge gli uomini in un incontro che assume la forma dell’amicizia, della conversazione confidenziale, della gioia di stare insieme, dell’invito e della comunione (cf. DV 21). L’incontro con Dio è il senso della creazione, la destinazione dell’uomo, il fine della storia. Per compiersi esso ha bisogno di trovare la risposta della fede (cf. DV 5), che trova prima e compiuta espressione nella celebrazione liturgica. Questa, infatti, ogni giorno edifica quelli che sono nella Chiesa per farne un tempio santo nel Signore, un’abitazione di Dio nello Spirito, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo (Sacrosanctum Concilium, n. 2).
Così, mediante il battesimo, gli uomini vengono inseriti nel mistero pasquale di Cristo: con lui morti, sepolti e risuscitati, ricevono lo Spirito dei figli adottivi, «che ci fa esclamare: Abba, Padre» (Rm 8,15), e diventano quei veri adoratori che il Padre ricerca. Allo stesso modo, ogni volta che essi mangiano la cena del Signore, ne proclamano la morte fino a quando egli verrà (ib., n. 6)
 
Ciò è reso possibile dalla natura indivisibilmente personale ed ecclesiale della fede, realizzata sorgivamente dall’evento battesimale nel quale il credente con un unico atto diventa figlio di Dio e membro della Chiesa, trovandosi stabilito in relazione di fede, di amore e di vita con il Cristo risorto nello Spirito e con i fratelli nella fede. Perciò la Lumen Gentium, al n. 9, dice
 
Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella santità.
 
Dall’appartenenza a questo popolo si sviluppa la coscienza di una pienezza umana che chiama a condivisione con tutti gli esseri umani, alla cui intangibile e uguale dignità la Gaudium et spes dedica ripetuti richiami (a cominciare dal più esplicito n. 12).
 
Pertanto il santo Concilio, proclamando la grandezza somma della vocazione dell’uomo e la presenza in lui di un germe divino, offre all’umanità la cooperazione sincera della Chiesa, al fine d’instaurare quella fraternità universale che corrisponda a tale vocazione (Ib., n. 3).
 
Queste quattro dimensioni, dunque, vivono l’una nell’altra: l’ascolto di Dio è già essere messi in grado di riconoscerlo e quindi di credere; ma non c’è fede che non si traduca in lode e preghiera nella rete di relazioni della comunità dei credenti che guarda con benevolenza, invito e solidarietà quanti, anche solo segretamente, attendono l’incontro con Dio come più profonda aspirazione del proprio essere.
Una delle costanti che anche i documenti conciliari mettono in luce è costituita, dalla parte dell’uomo, dalla mancata corrispondenza al dono di Dio e alla sua chiamata, in altre parole dal peccato, inteso fondamentalmente come mancanza di fede; ma dalla parte di Dio la vera costante è la sua fedeltà a oltranza, la riproposta della sua offerta di incontro e l’attesa operosa paziente del ritorno del figlio scapestrato. Soprattutto il mistero pasquale di Cristo rivela il volto paradossale del Dio che viene incontro all’uomo e la natura ultima dell’incontro, come iniziativa unilaterale e perseverante. Nella rivelazione di Dio in Cristo l’incontro con l’uomo conserva un tratto di insuperabile unilateralità. «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai» (Is 49,15). Commenta – in un certo senso – Gaudium et spes, n. 13:
 
Ma il Signore stesso è venuto a liberare l’uomo e a dargli forza, rinnovandolo nell’intimo e scacciando fuori «il principe di questo mondo» (Gv12,31), che lo teneva schiavo del peccato.
 
Liberazione dal male e fraternità vanno di pari passo. Non il solo riconoscimento della dignità della persona umana, né la compassione per la sua condizione, ma la coscienza del proprio bisogno di perdono e l’esperienza della riconciliazione aprono il cuore al riconoscimento dell’altro come di un fratello da accogliere e da accompagnare, non solo nel suo bisogno di pane, ma non meno nel suo bisogno di Dio. Come noi abbiamo imparato, l’incontro di Dio con noi e di noi con lui ha aperto gli orizzonti della fraternità e dell’incontro con l’altro; così ogni nostro simile – anche il più sconosciuto, lo straniero più lontano e diverso da noi – attraverso di noi attende che accada anche a lui l’Incontro supremo, spera segretamente di conoscere il volto e di ascoltare la voce di colui che è in persona l’Incontro, l’Incontro di Dio con l’uomo, Gesù Cristo.
 
Che cosa significa allora educare all’incontro? La vita cristiana delle nostre comunità è plasmata in buona misura dal Concilio e in qualche modo costituisce già essa stessa una scuola, una forma di educazione all’incontro. Infatti educare è un processo complesso in cui chi si apre all’incontro si lascia plasmare dalla testimonianza e fa emergere da sé l’aspirazione profonda a corrispondere a esso per nutrire sé e l’altro della relazione che scaturisce dal reciproco riconoscimento. Il Concilio sembra dirci che è l’esperienza credente di incontro con Dio e con la sua misericordia che dà forma ed educa a essere figli e fratelli. Possiamo riconoscere che questa è la dinamica di fondo dell’esperienza umana: siamo fatti per vivere da figli e da fratelli. Ma dobbiamo anche ammettere che una umanità non redenta non è capace di tentare o, comunque, di realizzare un simile percorso di vita. Da credenti, con convinzione ma senza presunzione, dovremmo sapere, ad ogni incontro, che l’altro è sempre uno misteriosamente alla ricerca del volto di Dio, dell’incontro con lui nel volto dell’uomo Gesù Verbo incarnato. Così accoglienza e testimonianza, incontro e annuncio non si confondono, ma nemmeno si escludono, in quella dolcezza e rispetto a cui richiama la prima lettera di Pietro (cf. 3,15).
 
Su questo sfondo possiamo allora dire una parola più specifica sull’incontro con lo straniero che viene da noi, non dimenticando l’orizzonte vasto in cui esso si colloca, per la dinamica aperta di ogni persona che incrociamo e che in qualche modo realizza e rappresenta la visita di Dio per ciascuno di noi.
Il nostro tempo presenta opportunità e sfide. Infatti, come si esprimeva il filosofo francese Emmanuel Mounier: «Non esiste società che fra membri distinti. Le due eresie di ogni società sono la confusione e la separazione» (Rivoluzione personalista e comunitaria, Comunità, Milano 1949, 51). Confusione e separazione, indifferenza e individualismo sono anche i mali che segnano le relazioni nella nostra società, come ricordano anche i vescovi italiani negli orientamenti pastorali, là dove riconoscono che il contesto frammentato in cui viviamo prospetta dinamiche inedite e che «l’approccio educativo al fenomeno dell’immigrazione può essere la chiave che spalanca la porta a un futuro ricco di risorse e spiritualmente fecondo» (CEI, Educare alla vita buona del Vangelo, n. 14). In questo senso, il fenomeno migratorio è un’occasione e una sfida educativa, «una risorsa feconda, da valorizzare senza indulgere a irenismi e semplificazioni o cedere a eccessivi timori e diffidenze» (Ib., n. 10): l’occasione e la sfida per educare alla differenza, all’inclusione e all’integrazione, a una nuova storia di comunità e di relazioni. Le migrazioni, infatti, spingono a costruire nuove relazioni sociali, culturali, ecclesiali, nei confronti dei fratelli separati e dei fedeli di altre religioni.
Come leggere cristianamente questa realtà così estesa e così complessa, quale si presenta il fenomeno migratorio? La mobilità e l’incontro tra i popoli, la ‘diaspora’ di molte persone e famiglie è certamente un “segno dei tempi”,  come ha ricordato Benedetto XVI nel messaggio per la 92esima Giornata del Migrante e del Rifugiato del 2005, un campo che provoca all’incontro tra i popoli, al confronto, allo scambio culturale, al dialogo interreligioso. In questo senso, l’immigrazione è un ambito pastorale ma anche un “luogo teologico” per un rinnovato cammino di Chiesa: un elemento cioè attraverso il quale ripensare l’essere e l’agire della comunità cristiana, con una creatività di proposte e scelte che orientino il pensiero e la missione dei singoli credenti e delle comunità; un fatto attraverso il quale si sottolineino non solo le differenze tra le persone, le culture e le religioni, ma anche l’incommensurabile dignità umana e l’universale chiamata alla conoscenza della verità. Tutto ciò porta il credente a costruire un cammino di ascolto e di incontro, dentro il mistero dell’unica salvezza e dell’unico Salvatore, per una Chiesa che sia autenticamente sacramento universale di salvezza per il genere umano.
Dio cerca, fa il primo passo, è mosso dal desiderio di incontro, di comunicazione, di relazione; di ciò è segno la Chiesa radicata nell’ascolto e nel dialogo che dà compimento all’incontro. Perciò Paolo VI poteva dire: «La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio» (Paolo VI, Ecclesiam Suam, n. 67). Il dialogo che ne scaturisce valorizza le esperienze umane, cristiane e religiose diverse, articolandolo secondo quattro dimensioni a più riprese sottolineate dal magistero a partire dal Concilio. Esse sono: a) Il dialogo della vita, che si dà quando le persone si sforzano di vivere con lo spirito aperto e pronte a farsi prossimo, condividendo le gioie e le pene, i problemi e le preoccupazioni. b) Il dialogo dell’azione, nel quale i cristiani e gli altri credenti collaborano per lo sviluppo integrale e per la liberazione dell’uomo che vive nel disagio. c) Il dialogo dello scambio teologico, nel quale gli specialisti cercano di approfondire la propria comprensione delle loro rispettive eredità spirituali, e di apprezzare ciascuno i valori spirituali dell’altro. d) Il dialogo dell’esperienza religiosa, nel quale le persone, radicate nelle proprie tradizioni religiose, condividono le ricchezze spirituali, per esempio nel campo della preghiera e della contemplazione, della fede e dei modi di ricercare Dio o l’Assoluto (cf. Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli e Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, Dialogo e annuncio,  n. 41). Una relazione nuova con il mondo chiede oggi una «santità ospitale» (Christoph Theobald) a imitazione di Cristo, che realizza una presenza al mondo riconciliata, sanata e sanante.
La debolezza culturale più rischiosa è cedere alla sfiducia e alla paura. Lo ricordano ancora i vescovi italiani in un passaggio degli orientamenti pastorali: «L’opera educativa… deve aiutare a superare paure, pregiudizi e diffidenze, promuovendo la mutua conoscenza, il dialogo e la collaborazione» (n. 14). È importante, perciò, richiamare alcuni percorsi educativi, nella pastorale della mobilità, dai quali la Migrantes nelle Diocesi deve sentirsi particolarmente interpellata, proprio per non cedere alla paura, e soprattutto per costruire comunità rinnovate.
Un primo percorso è educare all’identità cristiana. «Un’identità debole – scriveva il compianto mons. Sergio Lanza – non è servizio allo straniero, ma aggravamento della sua situazione. Infatti rende arduo il processo di ridefinizione della sua identità, così come l’imposizione assimilatoria lo rende fittizio» (Responsabilità, trasformazioni e compiti della comunità cristiana, in Centro Orientamento Pastorale [a cura di], Gli immigrati interpellano la comunità cristiana, EDB, Bologna 2001, 128). L’educazione all’identità cristiana chiede una formazione permanente negli adulti cristiani, che renda capaci di dire la fede e testimoniarla nelle scelte della vita.
Un secondo percorso è costruire gesti e momenti di integrazione. L’incontro e l’accoglienza delle persone e delle famiglie immigrate ha bisogno di iniziative e proposte che, in maniera continua, aiutino a costruire relazioni vere e responsabili tra le persone della comunità cristiana e gli immigrati. L’integrazione non ha bisogno solo di mediazione, ma anche di scambi, di una partecipazione continua degli immigrati ai luoghi di vita sociale ed ecclesiale.
Un terzo percorso è la conoscenza delle culture. L’incontro, lo scambio dentro la comunità cristiana tra persone residenti e persone provenienti da altri Paesi chiede uno sforzo di reciproca conoscenza delle culture straniere e della nostra, come pure della geografia del mondo e delle cause che generano i fenomeni migratori dai diversi continenti. La conoscenza dei Paesi di provenienza degli immigrati aiuta a superare pregiudizi o giudizi affrettati, e a entrare nella prospettiva dell’incontro con l’altro. Soprattutto per i ragazzi e i giovani, che oggi vivono in una scuola aperta alla multiculturalità, la conoscenza culturale dei paesi da cui provengono i compagni di classe aiuta a costruire relazioni positive e costruttive.
Un quarto percorso è costituito dall’ecumenismo e dal dialogo interreligioso. Si tratta di un percorso che anche il recente Sinodo sulla nuova evangelizzazione ha sottolineato. È risuonato in molti interventi e nelle stesse parole di papa Benedetto XVI, che ha invitato a riprendere i documenti conciliari Dignitatis humanae, Unitatis redintegratio e Nostra Aetate. La conoscenza degli aspetti fondamentali, vagliati sul piano veritativo e morale, delle religioni degli immigrati aiuta a fare la carità nella verità e della verità, senza fermarsi alla sola fiducia e al semplice rispetto. Anzitutto aiuta a vivere concretamente una relazione ecumenica con sorelle e fratelli separati (in particolare ortodossi) che dai Paesi dell’Est giungono numerosi nei nostri paesi e nelle nostre famiglie. Il dialogo ecumenico può trovare, nelle nostre comunità cristiane, un momento diffuso di coinvolgimento nella tradizionale “Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani”. Con i fratelli immigrati che professano altre religioni e vivono nelle nostre città, la conoscenza e il dialogo, nella stima reciproca, aiutano il confronto e stimolano anche l’approfondimento della propria fede. Nel dialogo si costruisce gradualmente un processo di comprensione che va oltre la semplice ‘tolleranza’, per valorizzare le tradizioni, i valori comuni, le risorse specifiche per la costruzione di una società più a misura d’uomo.
Un quinto percorso riguarda un processo graduale di inserimento degli immigrati anche nella vita pastorale. È un processo non facile, ma indispensabile. Si tratta di valorizzare le presenze e le competenze, anzitutto dei cattolici provenienti da altre Chiese, che vivono una sorta di ‘diaspora’ dentro le nostre comunità cristiane. La presenza di immigrati cattolici nei nostri consigli pastorali, nell’Azione cattolica, nei movimenti, tra gli educatori, non può che arricchire il volto ‘cattolico’ della nostra Chiesa e offrire spunti e stimoli provenienti da Chiese ricche di dinamismo e di freschezza. Gli immigrati cattolici che vivono nelle nostre comunità, poi, possono assumere un ruolo importante nei percorsi diocesani e parrocchiali del catecumenato, che riguardano spesso persone immigrate. L’esperienza e i cammini delle comunità d’origine possono risultare significativi nell’attività di prima evangelizzazione e nell’accompagnamento alla scelta di fede.
 
Qualcuno ha invitato a imparare a pensare come se si fosse in viaggio (J. Derrida). Mettersi in viaggio significa concentrarsi sul partire, sull’allontanarsi da sé, sull’affrontare rischi e imprevisti; significa sentirsi esuli e non padroni. “Camminare” è il verbo con cui la Fondazione Migrantes coniuga la propria azione pastorale e sollecita le Chiese in Italia a guardare i volti e i popoli in cammino, con una particolare attenzione ai migranti, ai rifugiati, ai profughi, agli apolidi, alla gente dello spettacolo viaggiante e alle minoranze rom. Le loro sono storie significative di persone e di famiglie, di comunità senza le quali le nostre Chiese sarebbero meno belle, meno capaci di annunciare l’amore di Dio e di educare alla vita buona del Vangelo.
Un impegno, infine, non bisogna disattendere. Esso è contenuto nella parola che ha attraversato la nostra riflessione: “incontro” contiene l’‘in’ dell’inserimento, della partecipazione, della condivisione e il ‘contro’ della diversità, della differenza, della distanza. L’incontro non è mai un idillio (lo stesso Vangelo ce ne offre l’esempio), è una fatica. Si tratta di perseguire la meta giusta e di seguire la strada retta: non cancellare le differenze, ma entrarci dentro con delicatezza e rispetto, portare la propria diversità senza schiacciare, accogliere l’altrui identità senza annullare la propria, favorire la fraternità umana, lasciare fermentare la verità e il bene nelle coscienze, nell’attesa fiduciosa che l’una e l’altro sapranno farsi strada lungo il cammino paziente della vita.
 
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