giovedì 10 agosto 2023
Il sacerdote: «No a ragionamenti ideologici, c’è chi ha iniziato percorsi e chi non è mutato di una virgola. La mafia? Un conto sono i capi, un altro i “soldati” mandati alla guerra»
L'arresto di Giovanni Brusca

L'arresto di Giovanni Brusca - Ansa

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Una vita fatta di incontri, negli spazi chiusi del carcere e in località protetta. Da una parte c’è lui, don Marcello Cozzi, un sacerdote. Dall’altra ci sono loro: i boss delle organizzazioni criminali. Don Marcello ne ha incontrati tanti, da Giovanni Brusca a Gaspare Spatuzza, dai leader di Cosa nostra alla manovalanza delle ‘ndrine e di altri gruppi. «Le parole di Matteo Messina Denaro mi hanno richiamato alla mente il messaggio di un boss, che mi diceva: prima di essere catturato dallo Stato, io ero il soldato di un altro esercito. Perché la mafia, quando ci sei dentro, esige davvero un altro codice di comportamento, che è a noi per fortuna sconosciuto. Per questo, il linguaggio usato da un superlatitante che dimostra di non essersi mai pentito rimanda a un altro modo di gestire la vita e le relazioni. Spetta alla magistratura riuscire a decriptarlo, come si sta facendo ormai da mesi». Don Marcello oggi è il delegato della Conferenza episcopale della Basilicata all’Osservatorio regionale sulla criminalità e più volte, in pubblico e privato, ha ribadito che «dobbiamo denunciare continuamente il malaffare, promuovere la legalità sempre e contemporaemante provare a essere testimoni di umanità. Per questo, nel mio ragionamento vorrei partire proprio dal 41-bis».

La richiesta della sua abolizione, in nome del rispetto della dignità anche del peggior criminale, divide da sempre. Eppure i legali dei boss insistono. Che ne pensa?

L’unico modo di avvicinarci al tema è proprio quello di evitare le ideologie. Se il 41-bis diventa la negazione dei diritti umani, è inutile parlarne. Andrebbe abolito. Ma lo stesso discorso può valere anche per il carcere, che invece secondo la nostra Costituzione dovrebbe avere una funzione rieducativa. E io credo alla nostra Costituzione. Quello che ho imparato in trent’anni di incontri è che, per dirla alla David Maria Turoldo, ogni persona è un’infinita possibilità. Le prime volte in cui andavo a incontrare mafiosi ed ex mafiosi, avevo in mente un modello di detenzione e di detenuto: poi vedevo delle persone completamente diverse da quelle che immaginavo, ci parlavo e la prospettiva cambiava.

Può farci degli esempi?

Gaspare Spatuzza, tra gli esecutori materiali dell’omicidio di don Pino Puglisi, ringraziava il cielo perché il 41-bis per lui non erano quattro mura, diceva, ma quattro specchi: aveva iniziato a guardarsi dentro. Lo stesso è accaduto per Giovanni Brusca, che tra le mani teneva un mio libro letto e sottolineato pagina per pagina. Uno ‘ndranghetista calabrese disse che all’inizio sbatteva la testa contro il muro, poi riuscì a incontrare il Signore. Per un membro della Stidda, il tempo del carcere duro significò prendere consapevolezza del cambiamento: avevo un tarlo, mi disse, adesso sono in crisi di coscienza...

Per tanti, però, a partire da Messina Denaro nulla è mutato.

È vero. I Messina Denaro, i Totò Riina, i Bernardo Provenzano hanno dimostrato che non sono cambiati di una virgola. Un conto sono alcuni boss, un altro i “soldati” mandati alla guerra. Quando Messina Denaro, scrivendo alla sua compagna in un “pizzino”, dice che la storia gli darà ragione, fa capire che davvero Cosa nostra per chi ci appartiene è un altro mondo. Ciò che conta però è che alcuni mafiosi hanno potuto iniziare dei percorsi, non per forza religiosi, spesso anche solo di recupero della propria umanità. Non ho dimenticato quel che accadde all’inizio degli anni Novanta, quando allo stadio di Palermo comparvero degli striscioni contro il 41-bis. Era un segnale: i “duri e puri” avevano capito che gran parte dei loro uomini erano fragili. La verità è che solo in carcere essi potevano toccare con mano che esisteva un altro mondo.

Eppure ultimamente, dalle dirette social dietro alle sbarre agli allarmi sulle “celle colabrodo”, sembra vacillare anche la capacità del carcere di essere luogo di redenzione e di recupero. Non è così?

Prima di tutto, le parole dei magistrati vanno ascoltate e basta. Sapendo quello che succede, fanno bene a intervenire e a sensibilizzare l’opinione pubblica su eventuali errori, eccessi e storture avvenute dentro i penitenziari. Poi però non si può dire: rinchiudiamo i colpevoli dentro e buttiamo la chiave. Da un paio d’anni, faccio un cammino di affiancamento a un boss che non è affatto pentito. Mi mandò a chiamare: lui è al 41-bis e non ha intenzione di collaborare. Mi dissero: “Ma cosa ci vai a fare, rischi soltanto di perdere tempo...” Io risposi: se mi chiama, ci vado. Il cambiamento inizia dall’incontro e io non posso dire: ti incontrerò solo se hai deciso di cambiare. Così ci sono andato e continuo a farlo. Per me il Vangelo resta fonte di vita e quando sento, nella parabola del Figliol prodigo, che il padre è rimasto ad attendere il figlio che si era perduto mentre i suoi passi erano ancora lontani, non posso che rivedermi in quel padre.


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