venerdì 24 gennaio 2020
Procedure giù del 14% in un anno: per la prima volta il nostro Paese si ferma sotto quota mille. Laera (Cai): è il trend mondiale, pesano nazionalismi e calo delle nascite. Gli enti: manca il governo
L'arrivo di alcuni bambini congolesi adottati da famiglie italiane (Ansa, 28 maggio 2014)

L'arrivo di alcuni bambini congolesi adottati da famiglie italiane (Ansa, 28 maggio 2014)

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Giù, di nuovo, stavolta sotto quota mille. Non si arresta il crollo delle adozioni internazionali nel nostro Paese. Dove, nel 2019, ci si è fermati nella conta delle procedure di ingresso di bambini stranieri al numero di 969. Un dato in calo del 14% rispetto all’anno precedente, quando le procedure di adozione erano state 1.130. E che ha dello sconfortante se paragonato ai numeri del 2010 – sono trascorsi appena 9 anni – quando i bambini adottati furono oltre 4mila.

Ha scelto di percorrere la strada della trasparenza la Commissione adozioni internazionali (Cai) che, in attesa della pubblicazione del report statistico annuale, ha anticipato i dati aggiornati al 31 dicembre scorso. Nel dettaglio, le diminuzioni che maggiormente hanno pesato sul numero complessivo di minori arrivati in Italia riguardano la Cina (46 adozioni del 2019 rispetto alle 84 del 2018), la Federazione Russa (da 152 del 2018 alle 126 del 2019), la Bielorussia (72 rispetto a 91 nel 2018) e il Vietnam (37 rispetto alle 54 del 2018). Anche se «nonostante un calo generalizzato riscontrabile in quasi tutti i Paesi di provenienza dei minori – spiega la vicepresidente della Cai Laura Laera – alcuni hanno invertito positivamente la tendenza». È il caso della Colombia (che passa dalle 128 adozioni del 2018 alle 161 del 2019), del Perù (che conclude con 44 adozioni nel 2019 rispetto alle 24 del 2018), di Ucraina e Filippine. Non è l’unico dato confortante, visto che complessivamente sono circa 3mila le procedure pendenti in capo agli enti autorizzati: segno che le coppie desiderose di adottare sono ancora tante. Ma allora che succede? Come si spiega l’inarrestabile black-out delle adozioni?

«La verità è che non siamo davanti a dati sorprendenti, tutt’altro – continua Laera –. Il trend della decrescita prosegue in Italia e nel resto del mondo, anzi per certi versi in Italia è meno drammatico se guardiamo ai numeri di Francia, Spagna o Germania». Restiamo il secondo Paese più accogliente dopo gli Stati Uniti e tra i più aperti ai bambini in special needs, ovvero con problematiche fisiche o psicologiche o più avanti con l’età. «Il punto è che osserviamo sempre più spesso prevalere le istanze nazionaliste dei vari Paesi, che vogliono trattenere i bambini e destinarli al circuito interno delle adozioni nazionali, complice il calo demografico generalizzato – continua Laera –. È il caso della Cina per esempio». In quello della Federazione russa invece, e di molti Paesi dell’Est, «è fiorita la pratica dell’affido a pagamento e sempre meno bambini entrano nel circuito delle adozioni internazionali. Per altro, quasi tutti problematici». Ancora, «ci sono i Paesi che hanno chiuso completamente, come l’Etiopia, da cui arrivavano in Italia moltissimi bambini».

L’altra faccia della medaglia è quella che Laera chiama «la cultura della contrazione dell’adozione»: «Una tendenza sia di governi di destra che di sinistra. I primi privilegiano i legami di sangue, i secondi sono sempre più convinti che con l’adozione si portino via i bambini ai poveri. Sono linee culturali che vediamo sempre più spesso prevalere anche all’interno delle grandi organizzazioni internazionali e di cui dobbiamo prendere atto». Quello che si sta facendo in Italia – «ed è molto» sostiene Laera – è aver fatto ripartire la macchina dei rimborsi alle famiglie (liquidati quelli per chi ha adottato nell’anno 2015 si sta procedendo col 2016), aver intensificato i rapporti internazionali (9 gli incontri bilaterali con le autorità dei Paesi di provenienza dei minori nel corso del 2019), rimettere in piedi il bando per i progetti di cooperazione (annunciato già per le prossime settimane). Il tutto compatibilmente con le vicende della politica: «Da quando ho iniziato il mio mandato, in due anni e mezzo, ho visto cambiare tre volte il governo – spiega Laera –. È chiaro che diventa difficile lavorare senza la continuità nei rapporti istituzionali, pur con governi che mostrano interesse per l’adozione».

La mancanza di attenzione e di investimenti da parte dell’esecutivo è invece la principale, inguaribile ferita del sistema secondo gli enti adottivi autorizzati. «Quelle 3.039 coppie con procedure di adozione ancora pendenti ci dicono che le adozioni aumenterebbero, e di molto, se il governo si decidesse a investire su queste potenziali nuove famiglie» sostiene Marco Griffini, presidente di Ai.Bi. Amici dei Bambini, tra i pochi enti che nel 2019 ha visto una crescita delle adozioni (e del 7%) rispetto al 2018. Griffini ricorda come dal 2013 al 2017 siano stati stanziati, tra il Fondo per il sostegno alle adozioni internazionali e quello per le attività di cooperazione a sostegno dell’adozione internazionale, «101 milioni di euro, ma ne sono stati spesi solo 11. Un fatto inaccettabile, soprattutto se si pensa a quanto indispensabile sia diventato non solo il sostegno economico per le famiglie che decidono di adottare, ma anche l’aspetto della formazione, che fatta bene e capillarmente costa». Formazione delle coppie, sempre più spesso chiamate ad accogliere bambini problematici. E degli operatori dei servizi sociali, che le coppie dovrebbero accompagnare e sostenere anche dopo l’adozione.

Sull’aspetto della formazione e la necessità di investimenti insiste anche la ong torinese Cifa, che si conferma l’ente con più adozioni anche nel 2019 (ben 97, il 10% del totale): «Negli ultimi anni abbiamo assistito al sostegno di molte forme di genitorialità in Italia, ma non di quella adottiva. Tanto che sempre più spesso incontriamo coppie che arrivano all’adozione come alla loro ultima spiaggia, provate da anni di tentativi di gravidanza, con ogni tipo di metodica – spiega la vicepresidente del Cifa Paola Strocchio –. Sono spaventati, impreparati. E non per colpa loro, visto che i servizi sociali che li intercettano a loro volta non sono formati in maniera adeguata. Qui serve davvero una svolta».

«E poi ci sono i bambini, coi loro diritti troppo spesso dimenticati» osserva Paola Crestani, presidente del Ciai: «Quanti bambini avrebbero bisogno davvero? Perché un’altra drammatica verità è che i bambini che hanno bisogno di una famiglia sono molto di più di quelli che riusciamo ad abbinare, ci vengono continuamente segnalate situazioni difficili e non troviamo famiglie». Gli investimenti allora dovrebbero essere fatti innanzitutto sulla cooperazione coi Paesi di provenienza «come è intesa – prosegue Crestani – nella Convenzione dell’Aja, cioè per migliorare la tutela e la protezione dei bambini». E, nuovamente, sulle famiglie, «che vanno preparate ad accogliere situazioni sempre più complesse e che non possono essere abbandonate durante il percorso e nemmeno dopo che hanno adottato».

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