Sul carcere il Giubileo è stato profetico. Alla politica invece è mancata umanità

L'Anno Santo è iniziato con l'apertura della "porta santa" a Rebibbia e si è chiuso con la Messa a cui hanno partecipato migliaia di detenuti. Due Papi e il presidente della Repubblica hanno aperto gli occhi a tutti noi su una realtà fatta di sovraffollamento, suicidi, vulnerabilità. Eppure nessuno tra chi detiene il potere ha fatto il gesto che ci si aspettava
December 30, 2025
Sul carcere il Giubileo è stato profetico. Alla politica invece è mancata umanità
La Casa Circondariale di Civitavecchia
Il primo grande gesto per l’apertura del Giubileo nell’anno che si va a concludere è stato segnato da papa Francesco con una richiesta tanto nuova quanto concreta e impegnativa: l’apertura di una “porta santa” nel carcere di Rebibbia – visto come basilica della sofferenza – dopo quella di San Pietro. Un impegno di solidarietà e di fiducia che potesse avviare una risposta alle drammatiche e note condizioni di degrado materiale e spirituale delle carceri del nostro paese.
Un gesto seguito dalla indifferenza o respinto con sufficienza dalla politica istituzionale, rinviando alla promessa di nuove carceri dopo quella delle “caserme dismesse”, nonostante le richieste di interventi urgenti per l’indegno e inaccettabile sovraffollamento delle celle; con l’aumento dei suicidi in carcere e per le condizioni di accoglienza dei detenuti “psichiatrici”, “diversi” o vulnerabili. Tutto ciò nonostante le richieste di politici di “buona volontà” e di esponenti della cultura per un gesto di umanità in occasione del Natale; e nonostante le parole del papa Leone XIV e quelle del presidente della Repubblica.
Nel frattempo il contesto carcerario si è ulteriormente aggravato e deteriorato, anche grazie all’aumento del sovraffollamento e all’irrigidimento della disciplina normativa, in particolare con riferimento all’introduzione del delitto di rivolta penitenziaria anche per ipotesi di non violenza e disobbedienza civile; alle chiusure ingiustificate del sistema penitenziario verso l’esterno; alla svolta “panpenalistica e pancarceraria” del sistema penale e al conseguente aumento della popolazione penitenziaria rispetto alla disponibilità effettiva e ancor più regolamentare di spazio.
All’inerzia e alla sordità della politica istituzionale si è anzi aggiunta l’ironia (vorrei dire la beffa) di una denunzia per «rivelazione e utilizzazione di segreto d’ufficio» proposta dall’amministrazione penitenziaria nei confronti dell’ex cappellano di San Vittore per la notizia di alcuni suicidi avvenuti in carcere: denunzia riportata dal Corriere l’8 dicembre e saggiamente e doverosamente archiviata dall’autorità giudiziaria. Un “segreto d’ufficio” fra l’altro “rivelato” dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa nel dicembre scorso con un richiamo all’Italia sul trend dei suicidi in carcere e sulla condizione “psichiatrica” delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) dopo la doverosa abolizione degli ospedali psichiatrici giudiziari.
L’ultimo grande gesto di questo Giubileo – in sintonia con il primo – è stato dedicato anch’esso alla speranza e alla misericordia. È stata la celebrazione, per i primi fra gli “ultimi”, della Messa nell’incontro dei detenuti provenienti da diverse carceri italiane con il papa Leone XIV per l’“indulgenza” dedicata al “popolo del carcere” nel momento in cui un gesto di umanità viene rifiutato dall’autorità civile.
Entrambi i gesti dei due pontefici sono fondamentali al pari degli appelli del presidente della Repubblica. Rappresentano il tentativo di rispondere – anche sul piano umano – alla sofferenza e al dramma del carcere; al suo sovraffollamento; alle carenze in tema di educazione e di misure alternative; alle condizioni di vita nella quotidianità; alle difficoltà di mantenere rapporti affettivi con la propria famiglia nonostante la recente e pressante indicazione della Corte costituzionale; al bisogno di libertà insopprimibile per ogni persona; alla mancanza di stimoli per un recupero della responsabilità sociale.
L’esperienza pastorale e umana di chi lavora nel carcere (religiosi, volontari, personale) con fatica e abnegazione testimonia ampiamente il bisogno di recuperare e praticare questa dimensione, nei limiti e secondo le condizioni consentiti dal regime della reclusione e dalle esigenze della sicurezza.
Le esperienze di giustizia riparativa – nonostante i limiti connaturati ad essa e al loro muovere “i primi passi” nell’ambiente carcerario e con le sue difficoltà – sono una tappa difficile ma importante per il recupero del senso di responsabilità di chi ha sbagliato e del suo rapporto con le vittime del suo errore. Per molti – come testimonia l’esperienza della assistenza religiosa e/o sociale in carcere – quest’ultimo può diventare (e diventa) occasione di revisione e recupero dei valori fondamentali di convivenza e di riflessione e riesame del proprio modi di essere e sul proprio vissuto.
Soprattutto nell’esperienza e nella sofferenza del carcere si può trovare una ragione di riflessione che aiuti a comprendere errori commessi e a maturare aspetti di riabilitazione; che riesca a superare la sensazione del carcere come vendetta della società, meritata o meno che sia. Come è stato osservato nell’esperienza pastorale, una strategia lungimirante non può esaurirsi soltanto in una dimensione punitiva; deve poter offrire alla persona stimoli e occasioni di ripensamento e di cambiamento.
La “porta del Giubileo” nel carcere è uno stimolo – reso efficace dalla novità introdotta da papa Francesco con la “porta di Rebibbia” – per aprire delle “Porte della speranza” in altre carceri. Non si tratta di uscire o entrare nel carcere fisicamente; si cerca di sottolineare e ricordare a una società di “smemorati” – secondo un progetto internazionale ispirato all’anno giubilare – il simbolo di una porta definita come “architettura senza mura”, che consenta la memoria e la comunicazione tra l’interno e l’esterno.
L’iniziativa delle “Porte della speranza”, progettata da artisti, designers e architetti in un dialogo con le persone detenute – come segnalato dal Corriere della Sera del 9 dicembre u.s. – prende lo spunto dalla “porta di Rebibbia” per quella “architettura senza mura” da realizzare in dieci carceri come “Porte della speranza”. La prima di esse dovrebbe realizzarsi a San Vittore prima della chiusura dell’anno giubilare come testimonianza del passaggio, dell’attesa per una trasformazione simbolo di fede e di possibilità di rigenerazione: un’occasione per intravedere la luce e per rendere possibile il dialogo fra chi è dentro e chi è fuori dal carcere.
Si cerca così di aprire e tenere viva la possibilità dello scambio tra chi è dentro e chi è fuori: perché ciascuno dei due protagonisti sappia che cosa c’è dall’altra parte e si regoli e si impegni di conseguenza. Ciò che già adesso dovrebbe avvenire con le finestre che nel carcere hanno sostituito le “bocche di lupo”; attraverso esse dovrebbero per chi è dentro entrare luce, realtà e aria di libertà, consentendo al tempo stesso la visione dell’interno per chi è fuori. Purché ciò non finisca semplicemente per essere un “simbolo inutilizzabile” dai diretti interessati.

© RIPRODUZIONE RISERVATA