Sorella morte: esperienza ostile che ci unisce davanti al limite
San Francesco invitò ad accoglierla perché solo così le si può impedire di toglierci speranza e amore. Diventando punto di massima vicinanza dell’uomo con Dio. Non una fine, ma il passaggio verso l’Eterno

«Mortali, non per la morte», scrivevo la volta scorsa. Il cristianesimo, in effetti, non ha mai predicato l’amore per la morte, né l’indifferenza al morire. Incoraggia però ad avvolgerla in ogni lato con l’amore, per impedirle di uccidere la speranza della vita. Se l’abbraccia non è perché le vuole bene, ma per impedirle il più possibile di nuocere. Fu questo il senso dell’affermazione di Francesco di Assisi, quando la chiamò «sorella». Era l’autunno del 1226 e, ormai al termine dei suoi giorni, chiese ai suoi frati di lodare assieme a lui il Signore sentendosi uniti al creato e, rivolgendosi alla morte che stava per avvicinarsi, le disse: «Sorella morte, sii benvenuta!». I frati intanto cantavano, tra molte lacrime, il cantico di “Frate sole e delle altre creature”. Francesco, verso la fine del cantico, li interruppe e aggiunse con la sua voce una strofa: «Laudato si, mi Signore, per sora nostra morte corporale da la quale nullo omo vivente pò scampare; guai ad quelli che morranno ne le peccata mortali. Beati quelli che trovarà ne le tue santissime voluntati, ca la morte seconda no li farà male».
La morte, una “sorella”? Facciamo fatica a capirlo. Eppure così la chiamò: lo avvicinava a Cristo sulla croce e a tutte le creature, deboli, eppure amate da Dio. Francesco, con quell’appellativo, tolse alla morte il suo pungiglione. Il lato nichilistico della morte trionfa quando induce disperazione; quando fa apparire l’amore e la vita vissuta uno sforzo vano, privo di senso. E trionfa anche quando diventa l’estremo gesto della prevaricazione di chi promuove guerra e violenza omicida. In tal caso, la morte ci persuade a venderle persino l’anima. Invece di rifiutarle il potere di svuotare l’amore versato nella vita, le accordiamo il presunto potere di ridurre l’amore della vita a niente. E così vince, sino alla bestemmia di invocare o provocare la morte “per pietà”.
La visione cristiana della morte, sfidando il paradosso, ci incoraggia a tenere insieme i due poli della tensione, senza scioglierne a poco prezzo la contraddizione. Da un lato, la fede cristiana insegna che la morte è realmente un’esperienza ostile, che avvilisce la vita consegnata da Dio alla creatura umana. Dall’altro, però, invita a riconoscere la morte come il segno più evidente della vulnerabilità della vita che tuttavia chiede un compimento. Per questo la morte non va rimossa – sarebbe comunque impossibile –, ma incontrata, sino a chiamarla “sorella”, appunto, come fece Francesco d’Assisi. È comunque esperienza universale che la morte, nella sua tragicità, aiuta, o meglio costringe, l’uomo a confrontarsi con la fragilità della vita. Nel giorno delle ceneri, i cattolici, mentre il sacerdote pone un pugno di cenere sul loro capo, sentono ripetersi: «Ricordati che sei polvere, e in polvere ritornerai». È l’avvertimento che Dio fece ad Adamo (Gn 3, 19). È una consapevolezza che possiamo rimandare, mai però annullare. Alla luce della morte, le nostre arroganze – nei molteplici modi con cui le manifestiamo – appaiono del tutto ridicole. Ed è l’umiltà ad essere sollecitata dalla coscienza della debolezza umana.
La morte tuttavia non è l’ultima parola, afferma la fede cristiana. Quella “polvere” (debolezza) che noi siamo, non è abbandonata. Al contrario, è amata da Dio. A tal punto amata, da spingere Dio stesso a divenire Lui stesso “polvere” – è il mistero dell’in-carnazione del Figlio che in questi giorni celebriamo – pur di liberarci dalla morte. È una convinzione che è maturata man mano nella coscienza dei credenti dell’Antico Testamento e che viene sancita con chiarezza solo con Gesù. Certo, la morte è nemica. Non è stata creata da Dio, come scrive la Sapienza: «Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi» (Sap 1,13). Al contrario, «Sì, Dio ha creato l’uomo per l’immortalità, e lo ha fatto ad immagine della sua natura» (Sap 2, 23). Nota Olivier Clément: «Se c’è un punto sul quale la Tradizione insiste molto, è proprio sul fatto che Dio non ha creato la morte. Dio è innocente e, come ha scritto molto profondamente Jean-Miguel Garrigues, non ha nemmeno idea del male. Il Dio vivente è la pienezza della vita».
La morte fa paura perché estranea a Dio. Potremmo dire che, in certo modo, è “contro natura”. Ricordiamo le parole di Gesù: «Il diavolo era omicida fin da principio e non stava saldo nella verità, perché in lui non c’è verità. Quando dice il falso, dice ciò che è suo, perché è menzognero e padre della menzogna» (Gv 8,44-48). La radice della morte è il nulla e la menzogna, ossia la dimenticanza di Dio, il rifiuto del Divino. La fede nel Signore dei vivi e dei morti vince sulla paura della morte. La presenza della morte, che chiude inesorabilmente l’esistenza terrena di ogni uomo, non significa la sua vittoria piena e definitiva. Così crede la coscienza del cristiano. E l’Oriente cristiano, esortando i credenti a non averne paura, sostiene che il diavolo, “il misantropo”, attraverso la paura della morte vuole separare l’uomo da Dio, che è invece “il filantropo” e che perciò vuole liberare l’uomo anche dalla morte . C’è un “istinto del cuore” (come lo chiama il Catechismo cattolico) che spinge a ritenere il passaggio sulla terra incompleto rispetto alla vita dello spirito che ci illumina: la morte rimane in attesa di riscatto e la vita in attesa di compimento.
Certo, il disorientamento di fronte alla morte accomuna tutti e profondamente. E provoca angoscia. Ma sono convinto che se tutti, credenti e laici, potessimo concentrarci seriamente sul legame che ci accomuna – dalla bellezza del nostro venire alla luce alla fatica del nostro congedo – nella sfida del senso della vita e del contro-senso della morte, l’intera nostra civiltà sarebbe diversa. Le nostre angosce profonde, e le semplificazioni con le quali cerchiamo di risolverle, creerebbero fra di noi ben altre complicità. La stessa cultura classica lo suggeriva. «Se la morte – disse Socrate ai giudici mentre si incamminava verso la condanna senza che lui la desiderasse – è come un emigrare di qui verso un altro luogo, ed è vero quel che si dice che là si incontrano tutti i nostri morti, qual bene può esservi più grande di questo, o giudici?... Ma è ora ormai di andare, io a morire, voi a vivere: ed è ignoto a tutti, che fra noi due vada verso la soluzione migliore, tranne che al dio» (Platone, Apologia 40e.42a). Anche Seneca, nel I secolo dopo Cristo, con un efficace parallelo, sosteneva: «Come l’utero materno ci custodisce per dieci mesi…, così durante lo spazio di tempo che va dall’infanzia alla vecchiaia maturiamo per un altro parto (in alium maturescimus partum). Un’altra nascita ci attende, un’altra condizione… La natura spoglia chi esce dalla vita come chi vi entra… Codesto giorno che tu paventi come ultimo, è quello della nascita all’eternità (dies… natalis). Gemi, piangi: anche piangere è proprio di chi nasce (gemis, ploras: et hoc ipsum flere nascentis est)” (Seneca, Epistulas, 102, 23-26).
Certo, lo scandalo della morte resta, eccome. E non va rinviato con leggerezza. Tutti temiamo la morte. Eppure dobbiamo parlarne: è nell’orizzonte della vita. David Grossman, dopo aver perso un figlio in guerra, ritiene un dovere riflettere sulla morte: «Il fatto stesso di scrivere in un simile momento mi assicura uno spazio, uno stato d’animo che non avevo mai conosciuto, in cui la morte non è più solo una negazione assoluta, unidimensionale, della vita. Quando scrivo, anche adesso, il mondo non si chiude su di me…: fa gesti di apertura verso il futuro» (Le Nouvel Observateur, 10-16 maggio 2007). La morte, estremo silenzio, ha perciò una parola da pronunciare e che deve essere udita e riferita. Tutte le volte che parliamo della morte – tra esseri umani – ci prendiamo una responsabilità: possiamo aiutarci a fronteggiarne l’enigma, oppure concorrere ad agevolarne il nichilismo. I cristiani non sono esonerati da questa responsabilità, come se la loro fede li avesse portati definitivamente oltre l’onere della prova. Al contrario, essi devono portarne il carico, di fronte a Dio stesso, in favore di altri: abbracciandone il paradosso ed esponendosi all’invocazione.
Nessun discorso su Dio vale qualcosa se, in ultima analisi, non cede il passo all’invocazione: il credente sta dalla parte dell’uomo mortale e peccatore, anche di fronte a Dio. Perché la morte non sia l’ultima parola. Ho davanti agli occhi la “Porta della morte” di Giacomo Manzù nella Basilica di San Pietro a Roma. Nel piano di fondo della porta le figure, dolenti o meditative, si muovono in un orizzonte di eternità: abitano un vuoto apparente che però consente l’attraversamento della soglia che porta, appunto, all’Eterno. La morte – la nemica per eccellenza – diventa così (ma dobbiamo esserne consapevoli) il punto di massima vicinanza dell’uomo con Dio. Non è la fine, è il passaggio verso l’Eterno.
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