lunedì 1 gennaio 2024
Il 2023 che si conclude è stato funestato da guerre e disastri naturali, ma non sono mancate vicende positive In queste pagine ne raccontiamo alcune, dal Sud del mondo alla nostra Italia
In Afghanistan dopo i 12 anni alle ragazze è proibito andare a scuola. Ma in molti villaggi si organizzano lezioni clandestine, come documenta il cortometraggio realizzato da Alessandro Galassi per Avvenire (qui un fermo immagine). È rischioso, ma è l’unico percorso per un futuro possibile

In Afghanistan dopo i 12 anni alle ragazze è proibito andare a scuola. Ma in molti villaggi si organizzano lezioni clandestine, come documenta il cortometraggio realizzato da Alessandro Galassi per Avvenire (qui un fermo immagine). È rischioso, ma è l’unico percorso per un futuro possibile - Avvenire

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Diritti. «Un giorno torneremo libere», le scuole delle ragazze afghane

(Antonella Mariani) «Sono sicura che le cose cambieranno. Mi sto impegnando al massimo, quindi andrà tutto bene». A parlare è Sahar, 16 anni, afghana. Lei e le sue coetanee dal settembre 2021 non sono più tornate tra i banchi: dopo i 12 anni d’età, nell’Emirato islamico dei taleban l’istruzione è solo maschile. Ma Sahar è tenace e non si è arresa all’apartheid di genere che le vorrebbe tutte a casa, sottomesse e ignoranti, chiuse nelle prigioni di stoffa dei burqa, destinate a null’altro che alla sopraffazione di un matrimonio non scelto e a partorire figli. Lei e altre 900 adolescenti in diversi villaggi del distretto di Bamyan, a nord-est della capitale Kabul, continuano a sperare che «le cose cambieranno» e intanto frequentano di nascosto una delle “scuole segrete” gestite da un’organizzazione semiclandestina, o meglio tollerata dalle amministrazioni taleban locali perché sostenute dai consigli degli anziani.

C’è un po’ di Avvenire in quelle aule dove in caso di ispezione improvvisa dei “barbuti” si è sempre pronte a sostituire i libri di inglese o di informatica con copie del Corano: grazie alla generosità dei lettori, la nostra campagna #avvenireperdonneafghane, che si è svolta tra febbraio e aprile 2023, ha fruttato una cospicua raccolta di fondi, devoluti appunto, attraverso la Caritas, a sostenere l’istruzione informale e semiclandestina delle ragazze.

Sono loro anche le protagoniste di “The dreamers”, il docu-film firmato dal regista Alessandro Galassi che nel giugno scorso ha visitato con l’inviata Lucia Capuzzi le “scuole segrete”. «Noi siamo le sognatrici, noi teniamo vivo il sogno, sappiamo che tutto questo un giorno finirà», intona Zarifa nel cortometraggio, sottovoce perché anche la musica è proibita. Sì, sono le sognatrici: perché credono, tutte insieme, che un futuro sia ancora possibile, che il regime liberticida degli estremisti islamici prima o poi restituisca loro la vita. Che la notte dei diritti finisca presto, e sorga l’alba di una ritrovata libertà. E il loro sogno è coltivato insieme, perché, come scrive papa Francesco in Fratelli tutti, «da soli si rischia di avere dei miraggi».

L’Afghanistan – si dice – è il luogo peggiore per nascere femmina. Vero, verissimo. Ma la vita scorre e resiste. Così accanto a violazioni spaventose dei diritti umani e delle libertà individuali, che stanno provocando un aumento dei suicidi giovanili, delle depressioni, dei matrimoni forzati e dei parti precoci, molte donne stanno pian piano approfittando di piccoli varchi nella selva di proibizioni deliberate dalle gerarchie taleban. Oggi dall’Afghanistan, a due anni e mezzo dall’arrivo dei taleban, agli operatori umanitari arrivano segnali contraddittori di cui non si possono prevedere gli esiti. Se è proibito alle ragazze tornare in classe, è possibile però utilizzare internet (con tutte le limitazioni di rete e di costo dei pc) per seguire corsi online, forniti da numerose organizzazioni internazionali e dalle stesse afghane fuggite dal Paese nell’agosto 2021. Oppure partecipare a lezioni nelle “scuole segrete”, spesso allestite in una stanza di casa e tenute nei villaggi da giovani già diplomate o laureate che oggi non trovano occupazione: rischiano tutte, alunne e insegnanti, ma non demordono e talvolta godono anche dal sostegno di padri e fratelli. Se alle donne è proibito lavorare in quasi tutti i settori produttivi, compreso quello dell’estetica, è invece possibile per loro dedicarsi all’agricoltura, alla panificazione, alla sartoria e in generale ad attività che si possono svolgere in casa. Se è proibito camminare in pubblico senza accompagnatore maschio, è possibile però frequentare i mercati femminili. Se nella quasi totalità dei ministeri le impiegate sono state epurate, in pochi altri continuano a lavorare. Se è negato partecipare alla distribuzione di aiuti portati da organizzazioni straniere, alcune eccezioni sono state fatte ad esempio dopo il devastante terremoto di Herat. Segnali contraddittori, dicevamo. Piccole luci nella notte dell’Afghanistan dei taleban.

Sanità. Farmaci africani per curare l'Africa

La somministrazione di un vaccino orale antipolio a un bimbo nigeriano

La somministrazione di un vaccino orale antipolio a un bimbo nigeriano - Ansa

(Paolo M. Alfieri) Farmaci africani per pazienti africani. Anche per la malaria, che nel Continente nero, nonostante la lenta diffusione dei primi vaccini, continua a costituire il bacino di questo flagello, con circa 600mila vittime ogni anno. Una società keniana, la Universal Corporation Limited, è diventata di recente la prima compagnia farmaceutica africana a ricevere l’approvazione dell’Oms per la produzione di farmaci antimalarici salvavita.

I medicinali di questo tipo, una combinazione di sulfadossina-pirimetamina-amodiachina, sono usati di frequente per prevenire la malaria nei bambini e nelle donne incinte durante i periodi di picco di trasmissione della malaria, come la stagione delle piogge. Finora la loro disponibilità era affidata alla sola importazione di versioni generiche da India e Cina.

La produzione keniana, che andrà sul mercato con il nome di Wiwal, significa dunque un passo in direzione di una minore dipendenza da altri continenti, un fattore di cui molto si è parlato durante la pandemia di Covid-19, quando i vaccini in Africa sono arrivati con numeri irrisori. Si stima che oltre il 70% dei farmaci utilizzati nel continente siano di importazione e che siano solo sei le società farmaceutiche africane ad aver ottenuto il controllo di garanzia dell’Oms. Tra gli ostacoli ad una produzione di farmaci di qualità ci sono gli alti costi operativi, la mancanza di formazione tecnica, i pochi investimenti nell’industria farmaceutica. Nel continente nero circolano milioni di medicinali falsi e gli stessi antimalarici sotto-standard sono ritenuti responsabili di oltre 116mila morti l’anno.

L’approvazione dell’Oms ottenuta dalla Universal Corporation Limited indica che il processo di produzione di un farmaco soddisfa gli standard internazionali, un requisito in grado di attirare i principali acquirenti, incluse le grandi organizzazioni donatrici. Secondo il gruppo di ricerca Medicines for malaria venture, la produzione locale e la distribuzione equa dei medicinali sono essenziali per accelerare gli sforzi verso l’eliminazione della malaria, in attesa che anche i primi vaccini siano più ampiamente disponibili. Le autorità sanitarie africane premono ora per consentire che il commercio di farmaci prodotti all’interno del continente possa avvenire senza dazi doganali tra un Paese e l’altro. I produttori africani devono infatti competere con i concorrenti dell’industria indiana che producono anche gli antimalarici su larga scala: la rimozione delle barriere commerciali può essere decisiva per sostenere gli sforzi già effettuati dalla ricerca. E può essere davvero un nuovo inizio.

Lavoro. Vincenzo e gli altri. Il sogno realizzato oltre la Whirlpool

Nei capannoni dismessi della fabbrica Whirlpool di Napoli, l'operaia Desiré Cocozza (35 anni e madre di una bambina di sei mesi) è stata la prima ex dipendente a firmare un contratto di lavoro con la nuova azienda che ha preso il posto della multinazionale americana

Nei capannoni dismessi della fabbrica Whirlpool di Napoli, l'operaia Desiré Cocozza (35 anni e madre di una bambina di sei mesi) è stata la prima ex dipendente a firmare un contratto di lavoro con la nuova azienda che ha preso il posto della multinazionale americana - Ansa

(Antonio Averaimo) È “speranza” la parola che più ricorre nel racconto con cui Vincenzo Accurso ripercorre gli ultimi quattro anni e mezzo di lotta vissuti da lui e dai suoi compagni di fabbrica. E, a ben vedere, solo questa parola riassume bene il tempo in cui, dopo essere stati licenziati dalla Whirlpool, hanno continuato a lottare, in strada e ai mille tavoli istituzionali convocati da quattro diversi governi, perché quello stabilimento della periferia orientale di Napoli non chiudesse una volta per sempre, perché quel lavoro che consentiva a loro e alle loro famiglie di andare avanti non svanisse davvero nel nulla. E così è stato, visto che Vincenzo e gli altri 311 lavoratori che ci hanno creduto fino in fondo hanno firmato quest’anno un contratto che li lega a Italian Green Factory, newco creata da TeaTek, un’azienda napoletana che ha rilevato l’ex stabilimento Whirlpool, nel quale si produrranno, una volta completata la riconversione, componenti per pannelli fotovoltaici.

«Le cronache – dice Vincenzo – sono piene di storie di lavoratori che lottano per difendere il loro posto di lavoro, ma alla fine vanno a casa. Dovrei dire che nel nostro caso qualcosa è andato storto… Eppure ricordo ancora gli anni vissuti nel limbo, le crisi di panico e l’insonnia che hanno preso me e i miei compagni quando abbiamo saputo del licenziamento. Il futuro era scomparso, rimaneva solo la speranza». Ed è proprio questo che ha fatto la differenza e li ha portati a vincere la loro battaglia, ne è sicuro. «Eravamo convinti che non avremmo perso il nostro posto di lavoro. Abbiamo lottato con questa convinzione, che ora – lo so – suona un po’ come pazzia. E vedevo negli altri la mia stessa speranza».

Vincenzo ricorda una data in particolare: l’11 agosto 2022, quando il consorzio di imprese che era interessato a subentrare alla Whirlpool decise di tirarsi indietro. «Di nuovo insonnia, ansia, panico nelle mie notti… Ma poi ci siamo detti: rimettiamoci in marcia. Siamo caduti tante volte, e tanti sono gli schiaffi che abbiamo preso, ma ci siamo sempre rialzati, grazie anche all’opinione pubblica, che si è schierata dalla nostra parte. Abbiamo girato l’Italia: Roma, Bologna, Taranto, Varese, Firenze… Ovunque ci applaudivano, ci dicevano d’essere con noi. Così si spiega il finale di questa storia».
La Messa celebrata poco prima del Natale in fabbrica dall’arcivescovo di Napoli, Mimmo Battaglia, ha avuto un significato speciale per Vincenzo e i suoi compagni di fabbrica. «È stata la chiusura di un ciclo. La Chiesa ci è stata sempre vicina in questi anni: il primo a venire a celebrare da noi fu il cardinale Sepe. E l’attuale arcivescovo ha voluto che il Sinodo fosse convocato nella nostra fabbrica. Questo è un Natale speciale per noi. Il Natale è una luce che arriva nell’oscurità della vita...».

Migranti. Malek, salvato su un barcone. Ora aiuta gli altri come lui

Un giovane migrante salvato dal mare

Un giovane migrante salvato dal mare - Ansa

(Francesca Ghirardelli) Non ha mai interrotto i contatti con chi ha vissuto insieme a lui i mesi più duri, né ha mai voltato del tutto pagina, come sarebbe stato più comodo fare, emotivamente ma anche nella pratica. Da Zurigo, la città dove il suo lunghissimo viaggio si è concluso, Malek ancora oggi continua a fare ciò che fino a luglio faceva in Tunisia: dà una mano come può a chi gliela chiede. A più di cinque mesi da quando ha lasciato la costa di Sfax su un barchino in ferro, stretto fra altre 42 persone fino a Lampedusa, questo ragazzo sudanese non ha ancora disattivato il suo numero di telefono tunisino. Risponde lì, oppure su Messenger, ai compagni di sventura di varie nazionalità che sono rimasti indietro, non ce l’hanno fatta e sono ancora bloccati in Nord Africa. Li aiuta da remoto, come quando a novembre dalla Svizzera ha lanciato l’allarme per il peggioramento delle condizioni di salute di un uomo della Sierra Leone, Jamal, affetto da grave infezione renale, accampato con la moglie Saffiatou in una baracca di fronte alla sede di Tunisi dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni. «Ha bisogno di aiuto, per favore, sta male», scriveva in un messaggio.

Avevamo conosciuto Malek proprio lì, nella tendopoli improvvisata della capitale, dove a luglio erano diretti molti di coloro che fuggivano dalle tensioni scoppiate al porto di Sfax, in quei mesi diventata hub principale delle partenze irregolari verso Lampedusa. In questo 2023 di flussi migratori intensi (che dal Mediterraneo centrale ha registrato 155.700 persone in arrivo secondo il Viminale, mai così numerose dal 2018), la Tunisia avrebbe dovuto rappresentare l’alternativa più sicura e più agevole rispetto ai rischi corsi lungo la rotta libica. Non è stato così. Ancora prima del Memorandum d’intesa raggiunto il 16 luglio, alla presenza anche della premier italiana Giorgia Meloni, tra il presidente tunisino Kais Saied e i rappresentanti dell’Unione europea (con l’obiettivo di arrestare il flusso di persone in arrivo) era apparso chiaro a Malek, a Jamal e a tutti coloro che si trovavano in transito in quel territorio, che la Tunisia non era affatto un Paese sicuro, tra raid della polizia, sgomberi eseguiti con l’inganno, trasferimenti forzati ed espulsioni collettive verso i confini algerino e libico.

«In Tunisia soffri la fame - spiega - , ho visto la polizia impedire ad alcune associazioni locali di consegnarci doni alimentari. Non c’è alcuna assistenza, nessun aiuto, a nessuno interessa della tua sorte». L’Oim, l’Unhcr, queste organizzazioni che fanno parte delle Nazioni Unite qui non fanno nulla per noi. L’unica cosa che risulta facile è ottenere il rimpatrio, entrare in un programma per tornare a casa», aveva raccontato. Aveva insistito perché facessimo visita nella tenda di Jamal, già a luglio sfinito dai dolori, incapace di reggersi in piedi e accudito dalla moglie Saffiatou. Per lui, Malek aveva ripetutamente chiesto aiuto ad Oim, perché mandasse un’ambulanza. Visto che non arrivava nessuno, aveva dato una mano alla moglie per accompagnare l’uomo in ospedale. Aveva chiamato i soccorsi anche per tre ragazzi della Guinea, arrivati una notte da Sfax in pessime condizioni, probabilmente malati. Uno di loro, alla fine, aveva perso la vita. Malek aveva voluto anche mostrarci, a tutti i costi, la situazione estrema in cui viveva una famiglia yemenita, quella di Nasra, del marito e dei loro otto figli, accampati su un marciapiede, a pochi centimetri da dove sfrecciavano le auto, sotto un telo di plastica tra le transenne di fronte agli uffici di Unhcr.

«Malek prova compassione per chi si trova nelle condizioni in cui gli è capitato di trovarsi anche lui. Quel ragazzo ha aiutato me e molte altre persone», ci ha confidato successivamente la signora yemenita che ora, per fortuna, ha un alloggio sicuro. Malek è arrivato sulle coste italiane il 20 luglio scorso, dopo due giorni e due notti di navigazione su un barcone di otto metri. «E dopo ore di onde altissime. Le persone a bordo chiedevano ad Allah di proteggerci», ci ha raccontato di quella traversata. «Avevamo con noi anche donne incinte. Quando le autorità italiane ci hanno trovato e trasferito sulla loro nave, noi avevamo già finito tutto il cibo, e soprattutto stavamo imbarcando acqua. Per fortuna siamo arrivati tutti salvi». Dopo due notti trascorse a Lampedusa, Malek era stato destinato al centro della Croce Rossa di Como, dove è rimasto con una trentina di altri ragazzi per una settimana. Poi però ha scelto di proseguire, illegalmente, ed è arrivato in Svizzera. «Mi trovo ancora a Zurigo, sono in una struttura di accoglienza, qui sto bene», ci ha fatto sapere nel suo messaggio più recente.

Spopolamento. Dopo 30 anni il primo bambino tra i centenari

Il braccialetto sul polso del piccolo Axel, nato lo scorso novembre sull’Appennino emiliano. La fotografia è stata postata su Facebook dal suo papà, Thomas Richeldi: «Da oggi qualcosa è cambiato» le parole scritte dall’uomo

Il braccialetto sul polso del piccolo Axel, nato lo scorso novembre sull’Appennino emiliano. La fotografia è stata postata su Facebook dal suo papà, Thomas Richeldi: «Da oggi qualcosa è cambiato» le parole scritte dall’uomo - da Fb

(Nicoletta Martinelli) Il nastro azzurro per l’annunciata nascita lo hanno appeso in piazza. E si capisce: Axel è stato il primo bebè dopo trent’anni a Tizzola, minuscola frazione del già piccolo Comune di Villa Minozzo, sull’Appenino emiliano. Omonimo – per volere della mamma, Simona Albertini – del frontman dei Guns N’ Roses, Axel è venuto al mondo lo scorso sei novembre e gli abitanti del borgo, nessuno escluso, hanno voluto conoscere il nuovo nato: per i coniugi Richeldi ospitarli anche tutti insieme non sarebbe stato difficile visto che sono solo 25. Ciascuno ha voluto condividere la gioia di questo arrivo e c’è da scommettere che il piccolino crescerà viziato da una moltitudine di zii e nonni acquisiti. Magari non compenserà la mancanza di altri bambini con cui giocare ma – chissà? – forse l’esempio di Thomas e Simona non resterà senza seguito.

Come tutte le aree interne del nostro Paese, anche questa zona si è lentamente spopolata a partire dal dopoguerra, un processo che sembra inarrestabile e che mette in discussione il futuro di molte comunità e di un Paese che di piccoli Comuni è soprattutto formato. Mentre la popolazione attiva si trasferisce, gli anziani restano: secondo gli ultimi dati Istat, in alcuni comuni dell’Appennino centrale e meridionale sono riscontrabili tassi di popolazione ultrasessantacinquenne pari alla media di 223 anziani ogni 100 persone in età da lavoro. Insomma, da queste parti non è raro festeggiare il compleanno di un centenario, molto di più quello di un bambino.

La scelta di Thomas Richeldi, muratore per professione e musicista per passione, e di sua moglie Simona non è stata facile perché l’isolamento di Tizzola non potrà non condizionare la vita del piccolo Axel: anche loro hanno scelto di trasferirsi, per anni hanno vissuto e lavorato a Reggio Emilia, ma la montagna, spiegano, l’avevano nel cuore e non hanno resistito a lungo prima di intraprendere il percorso inverso e tornare là dove Simona è nata e cresciuta. Si respira l’aria pura, i panorami sono mozzafiato, la tranquillità si spreca: qualche sacrificio – dice convinta Simona – si può fare. «Ci sembra anche di dare il nostro contributo, per quanto piccolo, al ripopolamento del nostro bell’Appennino – spiega Thomas Richeldi – e far crescere Axel in montagna ci sembra una scelta sempre più giusta. La gente di montagna è solidale, è all’occorrenza corrono».

Guerra. La suora di clausura con le sue fiabe costruisce la pace

Suor Lara Broggi in preghiera con le consorelle nel monastero di clausura San Giuseppe di Torino, dove vive in contemplazione

Suor Lara Broggi in preghiera con le consorelle nel monastero di clausura San Giuseppe di Torino, dove vive in contemplazione - Collaboratori

(Marina Lomunno) Vivere lontano dal mondo, da monaca di clausura. E desiderare con tutta l’anima di poter fare qualcosa per costruire la pace, perché in Terra Santa o in Ucraina le armi tacciano. «Per questo prego incessantemente. Ma ho anche deciso di scrivere una fiaba su come le guerre – tutte, anche i nostri conflitti quotidiani – se lo vogliamo possono cessare. I destinatari sono genitori, insegnanti ed educatori perché la leggano ai bambini a casa, all’asilo, a scuola, in parrocchia per far capire loro che la pace è possibile, è dono di Dio ma è opera degli uomini e delle donne, come dice papa Francesco». Suor Lara Broggi, 55 anni, monaca cottolenghina di vita contemplativa dal 1989, vive nel monastero San Giuseppe, una comunità di nove claustrali, cuore pulsante della Piccola Casa della Provvidenza che san Giuseppe Benedetto Cottolengo volle per sostenere con la preghiera la famiglia di vita apostolica che si dedica ai malati e ai poveri.

Sono sei oggi i conventi di clausura cottolenghini, 5 in Italia e uno a Tuuru nel nord est del Kenya. Suor Lara da anni scrive favole per i piccoli «è un modo per vivere la maternità», spiega. E per questo Natale «sconvolta dallo strazio delle immagini di guerra e distruzione che con le mie consorelle vediamo al telegiornale, pensando ai genitori che hanno perso i figli, agli orfani, ai morti sotto le macerie, a chi ha perso tutto soprattutto se anziano e non sa più dove andare, ho deciso di ambientare il racconto in una città sotto i bombardamenti».

Max il suo violino il titolo della fiaba pubblicata su «La Voce e il Tempo», il settimanale della diocesi di Torino (www.vocetempo.it): siamo in un villaggio di montagna, il protagonista possiede solo un violino magico e vive dell’elemosina dei suoi compaesani che lo invitano a suonare ogni volta che nasce un litigio. Le note del suo antico strumento hanno il potere di far tornare la pace. Una notte, tra il frastuono di boati il cielo si tinge di rosso: tutti hanno paura. Max decide di scendere in città a vedere cosa succede e incontra un uomo Shalom-Salam che lo invita a salire su un camioncino pieno di cibo: sta portando aiuti, giù a valle c’è la guerra la gente muore e scappa.

«Max è sconvolto dalla disperazione che legge nei volti che incrocia – racconta suor Lara –, Shalom-Salam allora lo invita a suonare perché la musica è il linguaggio del cuore. La melodia è struggente e i soldati con il mitra in mano si fermano e si chiedono l’un l’altro “cosa stiamo facendo?”. La guerra finisce tra lo stupore della gente, mentre dal violino di Max si sprigiona un arcobaleno che riempie il cielo e milioni di angeli vi scivolano sopra. Max può essere ciascuno di noi: i bambini ci guardano e ci ascoltano. La pace è il modo di guardare alla vita e si impara da piccoli».








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