martedì 26 marzo 2024
Che differenza c'è tra sedazione palliativa profonda continua e suicidio assistito? Perché c'è chi insiste sulla prima o sul secondo? Ecco cosa c'è da sapere su un punto centrale nel dibattito etico
Cos’è la “sedazione palliativa profonda” e perché è eticamente lecita
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Dal punto di vista del Comitato Nazionale per la Bioetica (2016), la Sedazione Palliativa Profonda Continua (Sppc) è definita come «l’intenzionale somministrazione di farmaci ipnotici per ridurre o annullare la coscienza al fine di alleviare sintomi fisici o psichici refrattari intollerabili per il paziente in fase terminale di malattia» (p. 6).

La legge 22 dicembre 2017, n. 219, in merito al consenso informato e alle disposizioni anticipate di trattamento, introduce la Sppc come opzione terapeutica in presenza di sofferenze refrattarie, a condizione del consenso del paziente (Articolo 2, comma 2). La legge stabilisce inoltre che ogni individuo ha il diritto di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario, inclusi quelli essenziali per la sopravvivenza (articolo 1, comma 5).

Nelle Linee guida del 2023 della Società italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia intensiva (Siaarti) e della Società italiana per le Cure palliative (Sicp), si distinguono due tipi di sedazione: per sintomi refrattari; per distacco dei trattamenti di sostegno vitale.

La Sppc per sintomi refrattari è definita come «una procedura terapeutica mirata alla riduzione o abolizione intenzionale della vigilanza/coscienza con mezzi farmacologici allo scopo di ridurre o abolire secondo la necessità la percezione di una sofferenza intollerabile dichiarata dal malato o valutata dai curanti e provocata da uno o più sintomi refrattari in fase avanzata o terminale di malattia» (p. 11).

La Sppc per sospensione di trattamenti di sostegno vitale è invece definita come «una procedura terapeutica mirata secondo la necessità alla riduzione o abolizione intenzionale della vigilanza/coscienza con mezzi farmacologici allo scopo di eliminare la percezione della sofferenza provocata dalla sospensione di trattamenti di sostegno vitale» (p. 12).
Il magistero della Chiesa cattolica, in documenti come “Samaritanus bonus” (2020), considera la sedazione palliativa profonda come moralmente accettabile in determinate circostanze, sottolineando la necessità di rispettare la dignità e la proporzionalità nel trattamento del dolore intenso in pazienti terminali.

In contrasto con la visione cattolica, in ambito laico emerge la tendenza a favorire l'eutanasia e il suicidio assistito per evitare una vita in sedazione, senza coscienza, considerata meramente biologica. Questo si riflette nella scelta di Fabiano Antoniani (noto come dj Fabo), che preferì l'opzione del suicidio assistito piuttosto che la sedazione.

In sintesi, il dibattito etico in relazione alla Sppc in ambito cattolico si focalizza sull’imminenza della morte e sull’evitare la morte procurata, mentre in ambito laico prevalgono considerazioni sulla non dignità della vita senza coscienza. Alcuni sostengono che mantenere la dignità significhi preservare la coscienza e l'interazione, mentre altri affermano che la dignità sia una qualità ontologica che è mantenuta anche in assenza di coscienza, soprattutto se ciò allevia sofferenze insopportabili.
In questo contesto, la Sppc diventa un gesto di profonda umanità. Non è semplicemente una questione clinica, è un atto di prossimità responsabile che riconosce il dolore intenso e cerca di mitigarlo, mentre al tempo stesso mantiene un legame con il paziente come essere umano. La vita sedata, seppur in uno stato di coscienza alterato o inesistente, non perde il suo valore intrinseco. Rimane una vita affidata alle cure un'espressione potente della fiducia e del rispetto per l'individuo.
Mantenere il “nesso umano” in questa situazione significa riconoscere e valorizzare la connessione umana al di là delle capacità cognitive o fisiche del paziente. Significa vedere oltre le limitazioni imposte dalla malattia o dalla condizione, riconoscendo la persona nella sua totalità. La Sppc, in questo senso, non è una resa di fronte alla sofferenza ma piuttosto un modo per mantenere e onorare la dignità umana anche nei momenti più difficili.

Dopo la sentenza 242 del 2019 della Corte costituzionale, in Italia c’è la possibilità del suicidio assistito in circostanze ben definite. Mentre il suicidio assistito rappresenta una decisione di chiudere attivamente una vita in risposta alla sofferenza, la Sppc si propone di rispettare il processo del morire senza cercare di anticiparlo o ritardarlo. Entrambe le pratiche rispondono a un bisogno di dignità e sollievo nel contesto della malattia terminale, ma lo fanno attraverso percorsi etici e clinici profondamente diversi.
In questo senso la Sppc non è solo una procedura medica, ma un viaggio condiviso di fiducia, cura e profonda umanità. È un segno che, anche nelle fasi più oscure della vita, il nesso umano – quel legame che ci unisce tutti come esseri responsabili e premurosi – rimane saldo e vitale.

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