sabato 22 aprile 2017
Il testo di legge sulle Dat, pur migliorato con emendamenti mirati, resta un cantiere aperto. Vediamo perché, punto per punto
Ecco i 5 punti critici: dalla relazione di cura all'obiezione
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Toccherà al Senato migliorare la legge sul fine vita, licenziata dalla Camera ancora densa di contraddizioni e bisognosa di argini contro derive eccentriche rispetto al fine dichiarato nel suo titolo («Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento»). Ecco dunque alcuni dei nodi su cui pare opportuno intervenire.

1) Relazione medico-paziente o assoluta autonomia del malato?

Al comma 2 dell’articolo 1 il consenso informato viene descritto come luogo d’incontro tra «l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico». Tuttavia, recita il comma 5 dell’articolo 3, «il medico è tenuto al rispetto delle Dat». A dispetto dei principi enunciati, è evidente la sfiducia nei confronti del sanitario, obbligato ad attuare senza possibilità di replica una volontà che la sua scienza gl’imporrebbe di non condividere. Questa contraddizione è stata solo in parte eliminata dalla previsione secondo cui «il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali» (articolo 1, comma 7) e dalla possibilità di disattendere le Dat qualora «appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita» (articolo 3, comma 5). Certo è che il ruolo delsanitario ne esce confuso e ridimensionato.

2) No a idratazione e nutrizione

Il comma 5 dell’articolo 1 precisa che «sono da considerarsi trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici». La scienza discute sulla natura di questi presìdi, perché – se è vero che essi avvengono attraverso uno strumento sanitario – nella sostanza si configurano quali sostegni vitali. Ma il punto è un altro: equiparando la somministrazione di acqua e cibo a qualsiasi altro trattamento si permette al malato di decidere la sua morte per una causa diversa dalla patologia di cui soffre. Tecnicamente, dunque, interverrebbe l’eutanasia omissiva: vale a dire la situazione in cui il medico – richiesto in tal senso – non dà corso ad atti da cui dipende la sopravvivenza della persona in cura. La Camera, poi, ha cercato di mitigare la portata della norma, imponendo che il medico informi bene ilmalato delle conseguenze del rifiuto e che se necessario gli fornisca opportuna assistenza psicologica.

3) L’obiezione di coscienza: un diritto (semi)dimenticato?

Nel primo testo approdato in aula, la legge si limitava a disporre che «ogni azienda sanitaria pubblica o privata garantisce con proprie modalità organizzative la piena e corretta attuazione dei principi di cui alla presente legge». Durante la discussione in Aula poi, essendo parso evidente che negare l’obiezione di coscienza avrebbe esposto la legge a probabili censure d’incostituzionalità, il comma 7 dell’articolo 1 ha visto quest’aggiunta: «Afronte di richieste» contrarie a «norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali», «il medico non ha obblighi professionali». Letto così, sembrerebbe garantito il diritto di ogni sanitario ad astenersi dagli atti ipoteticamente eutanasici. Ma, secondo altri, in questi casi «la struttura» sarebbe «comunque obbligata» a "staccare la spina". E se non disponesse di medici disposti a farlo?

4) Omicidio del consenziente e aiuto del suicidio: verso l’abrogazione tacita di questi reati?

Ben sapendo che questa legge avrebbe prestato il fianco a utilizzi eutanasici, il testo approdato in Aula – dopo aver previsto che «il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dalpaziente di rifiutare il trattamento sanitario odi rinunciare al medesimo» – chiariva pure che lo stesso medico, «in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile e penale» (articolo1, comma 7). Era evidente il riferimento ai reati di omicidio del consenziente e di aiuto nel suicidio, che in questi casi avrebbero goduto di una sostanziale depenalizzazione. Probabilmente poi accortisi di aver varcato il limite, i deputati hanno subito dopo aggiunto un’altra frase: «Il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenzali». In definitiva: può o non può il paziente richiedere trattamenti che possono comportare la sua morte? Per la prima frase sì, per la seconda no.

5) L’amministratore di sostegno e la vita della persona che gli è affidata

Fare l’amministratore di sostegno non è cosa semplice: annualmente bisogna depositare una relazione al giudice tutelare e rivolgersi a lui ogni volta che sia necessaria una spesa straordinaria. Considerando poi che questa figura è spesso l’erede della persona affidatagli, e che la cura di quest’ultima costituisce una spesa, si può intuire come l’amministratore di sostegno – ragionando sotto il profilo meramente economico – possa non avere alcun interesse alla sopravvivenza di chi ha in custodia. La legge, come detto, sembra permettere la sospensione di idratazione e nutrizione: un’omissione che porta alla morte. Come tutelare dunque la persona debole da possibili abusi del suo amministratore di sostegno? Il comma 4 dell’articolo 1 stabilisce che qualora egli «rifiuti le cure e il medico ritenga invece che queste siano appropriate e necessarie, la decisione è rimessa al giudice tutelare». Ovviamente su ricorso del sanitario. Ma appare equo onerare il medico di un procedimento giudiziario senza il quale sarebbe obbligato a lasciar morire il proprio paziente?

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