Ogni vita è un “bene in sé”: per questo è indisponibile

La discussione attorno a una legge sul suicidio assistito deve fare i conti con la questione preliminare e decisiva: che cos’è la vita umana? E quali sono, di conseguenza, i limiti oggettivi che ne mettono al sicuro l’integrità? Servono gli strumenti della filosofia e dell’antropologia
November 19, 2025
Ogni vita è un “bene in sé”: per questo è indisponibile
Avvenire ospita un confronto sulle ragioni della vita umana - etiche, giuridiche, mediche, antropologiche, dottrinali - di fronte a una possibile legge sul suicidio assistito, ospitando firme illustri del diritto, della medicina, della teologia, della bioetica (tutti gli interventi cliccando qui). Ecco la riflessione della filosofa Paola Ricci Sindoni, già presidente nazionale di Scienza & Vita.
Molta acqua è passata sotto i ponti da quando – nel 1990 – il Consiglio dei Ministri ha nominato per la prima volta il Comitato Nazionale per la Bioetica. In quei primi decenni di lavoro entusiasmante e produttivo la configurazione dei nominati era segnata in modo netto: bioeticisti cattolici da un lato, quelli laici dall’altro. I due schieramenti – voglio ricordare su un fronte Elio Sgreccia e Francesco D’Agostino, sull’altro Eugenio Lecaldano e Luisella Battaglia – hanno lavorato con grande serietà a trovare punti di contatto su molte questioni, per poi irrigidirsi su temi purtroppo divisivi, come l’eutanasia. Oggi il clima è cambiato e la nuova generazione di bioeticisti italiani ha in modo proficuo abbandonato lo scontro diretto, giustificato da entrambe le parti secondo le differenti tavole di valori, volgendosi piuttosto ad argomentare in modo più proficuo i vari progetti di legge e dunque scegliendo un terreno più adatto a costruire una bioetica comune, maggiormente volta ad approfondire questioni etiche e giuridiche in modo argomentativo. Anche il linguaggio di questa disciplina sembra mutare aspetto: i temi divisivi, segnati dai valori di sacralità e indisponibilità della vita da un lato e dall’altro della libertà e dell’autodeterminazione, hanno mutato in questi ultimi anni la prospettiva, alla ricerca di un terreno comune, anche provando ad approfondire alcuni valori in campo. Non sempre con successo, però: un noto psicoanalista laico, ad esempio, ha cercato di svuotare il senso religioso della “sacralità della vita” sostenendo che «donare la morte è un omaggio alla vita», un dono «che non oltraggia affatto la sacralità della vita ma la onora immensamente». Questo discutibile rovesciamento semantico non porta da nessuna parte, e se mai impone di lavorare con più tenacia per approfondire lo spessore antropologico di alcuni valori, così da rinvenire un qualche terreno di incontro meno invasivo. Va detto al riguardo che riesce difficile pensare, anche solo a fil di logica, che donando la morte si onora la vita, dal momento che questa non sarebbe di certo onorata perché uscita di scena.
Paola Ricci Sindoni
Paola Ricci Sindoni
Si proverà in queste poche righe a capire qualcosa di più sul concetto di “indisponibilità” della vita, mettendo fra parentesi il suo valore religioso. Basti pensare alla nuova sensibilità culturale e sociale che vede tutti gli esseri viventi – piante, animali e uomini – come protagonisti unici e insostituibili del sistema ecologico, che va salvaguardato e a cui di deve necessariamente dare rispetto e dignità, pena la perdita della vita sulla Terra. La selvaggia deforestazione dell’Amazzonia, ad esempio, ha giustamente sollevato un grido universale di allarme e di accusa nei confronti degli interessi politici in campo. In queste campagne di sensibilizzazione ambientale si dice correttamente che non siamo proprietari del pianeta e che questo non è disponibile a essere saccheggiato indiscriminatamente. Si pensi anche alle campagne per sensibilizzare sui pericoli degli animali in estinzione. Lo stesso dispregio sociale per la morte violenta degli animali, uccisi per la nostra sopravvivenza ma la cui morte va resa indolore (come recita un documento del Comitato per la Bioetica), e lo stesso orrore che ci colpisce quando una persona abbandona in autostrada il suo cane, dicono ancora una volta che tutti gli esseri viventi non sono di nostra proprietà e che dar loro la morte è un atto di inciviltà da punire anche penalmente. Tutto questo ci richiama a un fondamento ontologico: la vita, qualsiasi vita, va vista come un bene in sé, che non può dipendere dalla volontà o dalla valutazione dei singoli. Riconoscerne l’indisponibilità significa tutelare questo bene, a prescindere dalle condizioni in cui si trova. E ancora di più: la persona non è un essere isolato ma vivendo in una comunità condivide e costruisce con essa un linguaggio e una cultura che tengano conto della rete sociale che la informa. Come dire che la vita non appartiene esclusivamente al singolo ma ha una valenza sociale che richiede di essere promossa e tutelata.
Si dirà che l’intero orizzonte della questione legata al fine vita impone una prospettiva più meditata. Ciò che della vita umana è drammaticamente in gioco è la fase terminale, quasi sempre medicalmente assistita; da qui l’esigenza etica e scientifica di evitare la prospettiva di una morte degradante, prolungata e dolorosa. Se continuiamo a chiedere alla ricerca scientifica di trovare soluzioni più idonee per evitare la sofferenza delle ultime ore, percepiamo nel malato la richiesta – anche implicita – di sostegno affettivo, di accompagnamento, quasi una istanza di consegna del proprio mondo ferito a quanti stanno accanto. È qui che si affaccia il diverso ordine simbolico che si attribuisce a questi drammatici momenti: o si considera il malato terminale come un corpo sofferente, per cui non c’è più niente da fare se non abbreviare lo strazio, oppure lo si intravede come una persona smarrita e spaventata di fronte al compimento e alla prova finale di tutta la sua vita.
La discriminante antropologica è tutta qui. Stare di fronte al malato – tutti noi ne abbiamo fatto esperienza – può voler dire anche introdurre il tempo del morire nel campo della relazione, che esige rispetto abitandolo con la parola, con lo sguardo, con il gesto rassicurante. E ancora: il diritto di essere curato sino alla fine, garantito dalla Costituzione e dalla comune solidarietà, impone di alleviare il dolore tramite le cure palliative e la sedazione profonda, di garantire la proporzionalità delle cure, di sostenere con ogni mezzo il malato in questo difficile atto finale della propria esistenza.
Paola Ricci Sindoni è docente di Filosofia morale Università di Messina

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