«Attorno a ogni malato la cura di una comunità»
Il “metodo NeMO” premiato attraverso il suo fondatore Alberto Fontana con il riconoscimento più prestigioso al mondo per chi si occupa di malattie neuromuscolari, come la Sla. Un percorso di “welfare dal basso” nato dalle famiglie e diventato medicina di frontiera

Un giorno ti chiamano per dirti che hai vinto il Nobel del tuo settore: cosa penseresti? Serve questo paragone per figurarsi cosa può aver provato Alberto Fontana, fondatore dei Centri clinici NeMO (NeuroMuscularOmnicenter) e figura di riferimento per il mondo delle malattie neuromuscolari in Italia, quando gli hanno comunicato l’assegnazione per il 2025 dell’Allied Health Internazional Award, massimo riconoscimento mondiale per chi si occupa di patologie del motoneurone. Il suo nome è stato deciso da 60 organizzazioni impegnate nel mondo a vincere malattie come la Sla. E il segnale per la grande “famiglia” che gravita attorno ad AiSla e NeMO è molto chiaro: sì, siete un modello per tutti. Fontana è – giustamente – commosso.
Che valore ha questo riconoscimento mondiale per voi?
Non è un tributo personale: è la conferma che la “via italiana” alla cura della Sla ha una dignità internazionale. Per noi significa che il lavoro di migliaia di famiglie, volontari, medici, ricercatori e operatori sanitari viene visto, compreso e riconosciuto come un modello. È una vittoria collettiva. È la prova che quando un Paese mette le persone prima delle strutture, e la dignità prima della burocrazia, può generare innovazione vera.

In cosa consiste il “modello italiano” che ora viene premiato?
È un welfare che nasce dal basso. La comunità dei pazienti non ha aspettato risposte: le ha costruite. AiSla e le altre associazioni hanno dato voce ai bisogni; il Servizio sanitario nazionale ha ascoltato; i professionisti hanno messo competenza e cuore. È un modello che integra cura, assistenza e ricerca in un’unica regia, continua e condivisa. Non è un luogo, è un metodo: le persone al centro, sempre.
Qual è il “segreto”, umano, clinico e scientifico?
Guardare negli occhi la malattia senza voltarsi dall’altra parte. Sono cresciuto dentro questa comunità, e so che la fragilità non è un limite: è una lente che ti insegna a scegliere l’essenziale. Clinicamente il segreto è la multidisciplinarietà reale, non sulla carta. Scientificamente è credere che ogni persona meriti la migliore conoscenza disponibile, ogni giorno. Umanamente è ricordare che la cura è una relazione, non una procedura.

I Centri NeMO hanno aperto una strada pionieristica. Cosa ha permesso che nascessero e si consolidassero così come li conosciamo oggi?
I Centri NeMO sono nati perché le associazioni dei pazienti hanno chiesto un modo nuovo di essere curati. E perché alcuni direttori sanitari, in anni in cui non esisteva nulla di simile, hanno avuto il coraggio di aprire una porta. Senza AiSla, Uildm, senza Famiglie Sma, Fondazione Telethon e le loro comunità, NeMO non sarebbe mai nato. E senza il sostegno delle istituzioni che ci hanno accolto — le Regioni Lombardia, Liguria, Lazio, Marche, Emilia-Romagna e la Provincia autonoma di Trento — non sarebbe diventato ciò che è oggi. NeMO è un’opera collettiva, costruita mattone dopo mattone, ascolto dopo ascolto.
Di quali esperienze di questi anni oggi va più fiero?
Di ogni volta in cui una persona, entrando in reparto, dice: “Qui non mi sento un numero”. Non sono fiero delle strutture, ma delle relazioni che custodiscono. Sono fiero dei professionisti che scelgono la complessità perché sanno che dietro c’è una vita. Sono fiero dei volontari che fanno da ponte tra mondo clinico e quotidianità. Sono fiero delle famiglie che, pur stremate, continuano a insegnarci cosa significa resistere insieme.

Cosa impara una persona che oggi avvicina il “mondo Aisla”?
Impara che la fragilità non è mai sinonimo di solitudine. AiSla è una comunità che ti accompagna passo dopo passo, senza moralismi e senza abbandoni. Il suo dono è la capacità di trasformare la paura in orientamento, la confusione in diritti, il dolore in vicinanza. È il capitale più prezioso che abbiamo in Italia: una società civile che non lascia indietro nessuno.
La ricerca cosa sta scoprendo?
Stiamo vivendo un tempo di avanzamenti importanti: approfondiamo i meccanismi genetici e biologici della Sla, emergono nuove molecole, si rafforzano le tecnologie di supporto respiratorio e comunicativo. Ma c’è un’altra ricerca che considero altrettanto decisiva: quella sui modelli di presa in carico. Innovare modelli clinici significa migliorare la qualità di vita oggi, mentre lavoriamo per le cure di domani.

Cosa insegna NeMO su come affrontare la malattia?
Che la malattia non definisce il valore di una persona. Che la vita resta vita, anche quando cambia forma. Che nessuno affronta nulla da solo. NeMO accompagna, non sostituisce; sostiene, non impone; custodisce il tempo, non lo misura. La nostra forza è costruire spazi dove la fragilità può diventare relazione, e la cura può diventare un cammino condiviso.
Quali sono i suoi sogni per i Centri NeMO?
Due, molto chiari: equità ed eredità. Equità significa garantire lo stesso modello di cura a ogni persona, ovunque viva, senza differenze territoriali. Eredità significa rendere questo sistema così solido da poter camminare con le sue gambe, come patrimonio stabile del Servizio sanitario nazionale. Il premio di oggi non è un punto di arrivo: è il dovere di continuare a costruire futuro.
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