Le riserve auree al popolo una provocazione senza futuro
L'idea di alcuni senatori della maggioranza di attribuire allo Stato l'oro della banca d'Italia equivale a dire che si vuole uscire dall'euro. È questa l’intenzione di chi ha proposto l'emendamento?

Le riserve auree della Banca d’Italia sembrano essere diventate un feticcio da brandire in un momento di difficoltà o una cassaforte da aprire al bisogno. In realtà, sono parte integrante della nostra appartenenza all’Europa e del nostro impegno condiviso nella tutela della moneta unica. Tuttavia, un emendamento presentato da alcuni senatori della maggioranza – “Le riserve auree gestite e detenute dalla Banca d'Italia appartengono allo Stato, in nome del Popolo Italiano” – sembra ignorare non solo la lettera dei trattati europei, ma quello spirito di cooperazione che ha consentito all’Italia di ritrovare credibilità e stabilità dopo decenni complicati della sua storia. Che cosa significa davvero dire che l’oro appartiene allo Stato che lo detiene e lo gestisce in nome del Popolo Italiano? È un’espressione suggestiva, certo, ma profondamente fuorviante. Perché il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea affida al Sistema europeo delle banche centrali (SEBC), di cui la Banca d’Italia è parte costitutiva, il compito di detenere e gestire le riserve in valuta, inclusa la riserva aurea. Questo non è un dettaglio tecnico: è la scelta consapevole di un Paese fondatore dell’Europa, che ha voluto condividere sovranità per rafforzarla, non per indebolirla. Dire oggi che quelle riserve appartengono al popolo italiano, come se fossero oggetti smarriti che il popolo si è ricordato di reclamare, significa insinuare l’idea che il nostro destino possa essere concepito al di fuori della casa comune europea. Significa mettere in discussione un principio basilare della civiltà giuridica occidentale, che i romani formularono con limpidezza: pacta sunt servanda. I trattati non si rinnegano a piacimento, si rispettano. E se davvero qualcuno immaginasse di riappropriarsi dell’oro nazionale sottraendolo al SEBC, dovrebbe avere il coraggio di dire fino in fondo che vorrebbe, di fatto, uscire dall’euro.
È questa l’intenzione dei proponenti? Nessuno lo afferma apertamente. Ma la politica, specie quella che parla di questioni così delicate, dovrebbe avere l’onestà del linguaggio e la trasparenza degli obiettivi. E anche ammesso – per assurdo – che lo Stato potesse rivendicare per sé quelle riserve, quale sarebbe lo scopo? Usarle per ridurre il debito pubblico? Per finanziare nuove spese? Sarebbe un’illusione pericolosa: la ricchezza di ieri non può compensare l’incapacità di costruire quella di domani. Nessuna nazione che voglia guardare al futuro si mette a bruciare il proprio patrimonio; lo fanno solo i Paesi che stanno scivolando verso la povertà e consumano ciò che resta di un benessere passato. E quando un popolo arriva a questo punto, spesso è già troppo tardi. Il vero modo per finanziare il nostro bilancio pubblico – come ci ricordano le pagine più luminose della nostra storia repubblicana – è uno solo: creare lavoro, sviluppo, opportunità. Offrire a ciascuno la possibilità di contribuire al benessere comune e di partecipare alla crescita del Paese. È così che si onora il dettato costituzionale e si costruisce una Repubblica fondata sul lavoro. Non trasformando l’oro della Banca d’Italia in un bancomat a disposizione delle fragilità del momento. C’è infine un punto tecnico, ma non secondario, che merita chiarezza. Dire che le riserve auree appartengono al popolo italiano non significa nulla. L’appartenenza non è una vera e propria categoria. È un termine volutamente vago, un artificio retorico che non produce alcun effetto concreto. Perché, si badi bene, se gli estensori dell’emendamento avessero scritto la parola che davvero contava – “proprietà” – si sarebbero trovati in aperto conflitto con il diritto europeo. E allora si è preferito un verbo che scalda l’emotività, ma raffredda la sostanza.
Ed è proprio qui che il significato dell’emendamento appare in tutta la sua evidenza: non serve a modificare l’assetto delle riserve, non serve a costruire sviluppo, non serve a offrire nuove risorse allo Stato. Serve soltanto a gridare qualcosa che non si può fare, fingendo che si possa fare. È il modo di far politica che non costruisce, non unisce, non indica una strada. È l’inganno della promessa impossibile, che illude per un giorno e delude per molti anni. C’è un’Italia migliore di così. C’è un’Italia che sa essere europea senza paura, che non vede l’Unione come una catena, ma come uno strumento di prosperità condivisa. C’è un’Italia che conosce il valore delle sue istituzioni e della sua banca centrale, e che rispetta i patti perché sa che solo nei patti rispettati si costruisce fiducia. C’è un’Italia matura, capace di riconoscere che nessuna nazione può reggere da sola le onde lunghe delle crisi globali. Che la sovranità non si perde quando la si condivide: si perde quando la si finge autosufficiente, quando si cerca rifugio nell’illusione del “siamo abbastanza da soli”, e solo dopo, troppo tardi, ci si accorge di essere più vulnerabili che forti. È un'Italia che di questi tempi fa fatica a sentirsi rappresentata da una politica che sembra aver smarrito le radici più profonde del nostro Paese: dalla maggioranza arrivano emendamenti di questo tipo evidenziando la mancanza di cultura europeista, mentre l’opposizione sembra addirittura non essersi accorta di quello che accade.
© RIPRODUZIONE RISERVATA






