La guerra e le buone ragioni della diplomazia

Il necessario compromesso, nel conflitto russo contro l’Ucraina, non equivale alla compromissione di principi fondamentali delle relazioni internazionali
December 5, 2025
La guerra e le buone ragioni della diplomazia
Una manifestazione della comunità ucraina in piazza San Babila, a Milano, il 2 Agostoo 2025/ ANSA
Mentre sono in corso azzardate iniziative americane – che si fa fatica e definire “diplomatiche” o “mediazioni” in senso proprio – per trovare una soluzione alla guerra russa contro l’Ucraina, molti politici, analisti, e cittadini si domandano di quale pace si parli. Non è perciò superfluo cercare di comprendere il senso politico profondo di una formula insistentemente riproposta, in tre anni e 9 mesi di conflitto, nei comunicati delle principali diplomazie occidentali. È l’idea di una pace “giusta e duratura”, fondata sul diritto internazionale. La formulazione è impeccabile, almeno sulla carta. Ma dietro quelle parole si nasconde una pluralità di visioni che spesso divergono profondamente. Comprendere queste differenze non è un esercizio accademico, perché da esse dipende l’esito stesso del conflitto. La prima interpretazione, la più ovvia ed immediata, è quella della pace normativa, che identifica la pace anzitutto con il ristabilimento del diritto internazionale violato. In questa prospettiva, la giustizia richiede il ritorno ai confini dell’Ucraina internazionalmente riconosciuti (almeno il Donbass), il ritiro delle truppe russe, la responsabilità per i crimini di guerra e un quadro equo per la ricostruzione. È la posizione sostenuta da Kyiv sin dall’inizio e condivisa, con diversa intensità, da Paesi come Polonia e Stati baltici, per i quali la sicurezza europea passa (anche) dal ripristino pieno dell’integrità territoriale ucraina. Anche l’Unione Europea, ora forse con qualche attenuazione, continua ad insistere su una pace ancorata al diritto internazionale ed al rispetto sovranità ucraina, richiamando un modello di “pace positiva” o “pace strutturale”, per dirla con Galtung.
All’estremo opposto vi è la pace empirica, intesa come cessazione immediata delle ostilità, con un’implicita accettazione della situazione sul terreno. È l’idea di una “pace negativa”, come semplice assenza di guerra. Un modello che privilegia una fine qualsiasi del conflitto. È una pace minimale: ferma le armi (che è già qualcosa), ma congela il fronte, senza garantire né giustizia né sicurezza. Non risolve i rapporti conflittuali né affronta i nodi cruciali. È l’obiettivo primario di Trump, che vorrebbe un accordo rapido e transattivo, anche a costo di cessioni territoriali da parte dell’Ucraina, anche oltre le regioni effettivamente occupate dai Russi, e possibilmente guadagnandoci qualcosa, con una mercificazione della sovranità ucraina. Paradossalmente, è l’approccio che emerge anche dal pragmatismo della Cina, che propone un cessate il fuoco senza precondizioni, e trova eco in parte del Sud globale, dal Brasile al Sudafrica, senza contare i realisti geopolitici in occidente. Ogni guerra termina con un compromesso, ma non con la compromissione di principi fondamentali, come quelli della Carta delle Nazioni Unite. Fra queste due visioni estreme si colloca la prospettiva della pace deliberativa, che non definisce in anticipo l’esito ma il modo in cui lo si raggiunge. Qui la giustizia non coincide con un risultato prefissato, bensì con la qualità del processo negoziale: un negoziato che coinvolga l’Ucraina in condizioni di equità, senza pressioni esterne o ricatti, con garanzie internazionali che assicurino trasparenza, simmetria e piena sovranità decisionale. È questa la strada privilegiata dai diplomatici, non certo dai consiglieri del principe, pronti ad eseguire ad ogni costo le direttive dei capi. La diplomazia di idee ne ha, eccome. Pochi ricordano che già nel maggio del 2022 la Farnesina produsse uno schema negoziale articolato in quattro punti: cessazione delle ostilità, una conferenza internazionale per stabilire lo status internazionale dell’Ucraina, negoziati diretti tra Mosca e Kyiv con l’assistenza di un gruppo internazionale di contatto per stabilire le questioni territoriali e infine una nuova architettura di sicurezza in Europa articolato sulla conferenza di Helsinki del 1975. Più avanti, la diplomazia italiana propose che si nominasse un inviato speciale dell’Unione Europea per il conflitto russo ucraino. Infine, più di recente, la diplomazia italiana ha suggerito che si creasse - ben prima della svolta americana con la presidenza Trump - un gruppo di esperti incaricato di riflettere sullo stato finale, cioè capire come questa guerra potesse finire e immaginare i diversi scenari alternativi rispetto ai quali definire con chiarezza la posizione europea. Naturalmente, la diplomazia non ha sempre ragione. Ma spesso ha delle buone ragioni.

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