L’inverno demografico “gela” i punti nascita
Compie 15 anni l’accordo Stato-Regioni per concentrare risorse e personale sui reparti dove nascono almeno 500 bambini all’anno. Ma non tutto è andato come si pensava

L’inverno demografico in Italia perdura e le previsioni non ipotizzano un disgelo. Una delle conseguenze è la chiusura dei punti nascita che diventano superflui in una nazione che fa meno figli. Ne vale il risparmio delle risorse da destinare ad altri servizi, ma soprattutto la salvaguardia della salute di donne e neonati che in centri scarsamente attrezzati potrebbe essere a rischio. Nel 2010, l’Accordo Stato-Regioni ha posto gli standard per consentire la riorganizzazione, ponendo la soglia di 500 parti l’anno per ciascun punto nascita. Il provvedimento, che proprio in questi giorni compie 15 anni, riprende le linee guida internazionali dell’Organizzazione mondiale della sanità e pone come obiettivo finale una rete composta da strutture in cui mamme e bambini vengono assistiti da personale esperto. «Come società scientifica e come professionisti crediamo che qualsiasi punto nascita del Paese debba assicurare una qualità uniforme di assistenza nei primi giorni di vita», spiega Luigi Orfeo, past president della Società italiana di neonatologia. ù
L’alta competenza richiesta non può essere garantita da centri dove nasce un bambino ogni tre giorni. «Un professionista che vi lavora può avere delle difficoltà nell’affrontare un’emergenza. Ciò – ribadisce – dovrebbe spingere a una riorganizzazione della rete. Alcuni centri, soprattutto quelli più periferici, con un numero limitato di nascite, si reggono sul supporto dei gettonisti che sono in genere o pensionati o pediatri che non hanno esperienza di sala parto e quindi non garantiscono la qualità del servizio». Va detto, infatti, che in questi quindici anni, quando la politica non è stata in grado di intervenire, la chiusura è avvenuta comunque. «I punti nascita più piccoli hanno cessato l’attività perché il calo delle nascite e dei professionisti è stato così evidente che non c’è stata la possibilità di garantire un’assistenza adeguata». L’Accordo del 2010 inoltre auspicava il raggiungimento di una rete in cui centri contassero almeno 1.000 nascite l’anno. «Siamo molto lontani da questo obiettivo – dice Orfeo –, visto che più della metà è sotto i 1.000 e quasi 100 sono ancora sotto la soglia delle 500». Lo stesso Accordo prevedeva delle deroghe per le aree di montagna o nelle isole. «Alcuni punti nascita vanno tutelati. Spesso però rimangono aperti più per pressioni politiche o della popolazione che tuttavia non si rende conto come, sebbene sotto casa, possano essere rischiosi».
In Campania, a luglio, la popolazione di Piedimonte Matese, Sapri e Sessa Aurunca, in provincia di Caserta, ha protestato contro la chiusura delle unità. Pochi giorni fa, il Tar ha deciso per la loro riapertura. Antonio Eliseo, segretario di Nursind Campania, il sindacato degli infermieri, ha sostenuto le ragioni per mantenere attivi i centri. «Questi servizi servono – commenta – e serve che si inneschino quei meccanismi di interazione tra territorio e ospedale previsti dal Dm77. Abbiamo bisogno di un’interazione territoriale che sia in grado di dare delle risposte e si interfacci con la realtà ospedaliera. Dobbiamo inoltre fronteggiare un privato accreditato molto presente in questa area». Per il segretario, non bisogna abbassare la guardia per mantenere sempre alti i requisiti di sicurezza. «Quello che abbiamo chiesto come organizzazione sindacale – sottolinea – è che le aziende si attivino insieme alla Regione sugli effettivi controlli anche sulle strutture accreditate, alla luce di norme assolutamente precise. Come sindacato abbiamo appoggiato la riapertura di questi punti nascita ma devono essere assicurati i criteri di appropriatezza e sicurezza delle cure. Questo è fondamentale per la sicurezza degli operatori e degli utenti.
Abbiamo bisogno di avere un quadro estremamente chiaro di che cosa andiamo a mettere in campo. Se si rispettano i criteri di appropriatezza – evidenzia –, l’assistenza viene garantita. Se le professionalità ci sono, possono assicurare un servizio assolutamente adeguato sia nelle procedure sia nei protocolli». Chi critica il ruolo del privato accreditato è in particolare il Comitato San Rocco Bene Comune che ha portato avanti la protesta contro la chiusura, stilando anche un report. «Una parte significativa dei parti “persi” dal pubblico – afferma Domenico Palmieri, coordinatore del Comitato – è stata intercettata da cliniche convenzionate che operano sullo stesso bacino territoriale, in un contesto di evidente eccesso di capacità. È qui che si rompe il principio di sussidiarietà: il privato non integra il pubblico, ma compete direttamente, sottraendo volumi ai presidi pubblici fino a metterli in crisi.
Se i punti nascita di Sessa Aurunca e Piedimonte chiudessero ci ritroveremmo con otto punti nascita in provincia di Caserta, di cui cinque privati e tre pubblici. Se vogliamo davvero tutelare mamme e bambini – conclude Palmieri – occorre partire dalla radice del problema: ridurre le convenzioni dove non sono sussidiarie ma competitive».
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