Quel 24 maggio e questo (un ostinato desiderio di vita)
domenica 24 maggio 2020

«Il 24 maggio». Sul calendario mi cade lo sguardo sulla data stampata in rosso, perché è una domenica. Allora veloce da stanze lontane della memoria risale l’immagine di una classe di bambine, grembiule bianco e fiocco blu, che cantavano in coro: «Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio/ dei primi fanti il 24 maggio...». Risento quelle voci infantili, rivedo i nostri visi intenti nel canto, seri. La insegnavano nelle scuole negli anni 60, la Canzone del Piave. Il ricordo mi intenerisce, ma mi fa pensare. 24 maggio 1915, l’Italia dichiarava guerra all’Impero austroungarico. All’alba di quel giorno le prime truppe si schieravano su un lungo fronte, dalle Dolomiti al Carso fino all’Isonzo. Su cime aspre, sepolte d’inverno nella neve, su cui restano ancora i fortini e le trincee che i turisti alle Cinque Torri, a Cortina, d’estate, guardano con incredulità e angoscia. Fra i fanti che avanzavano in quei giorni c’era anche mio nonno Ferdinando, daziere, da Parma. Lasciava a casa moglie, un figlio di un anno, mio padre, e un’altra, in arrivo. Non so di che visse in quei tre anni mia nonna, con due bambini. La Canzone del Piave che ci insegnavano a scuola negli anni 60 evocava gloria, e patriottico ardore.

Le immagini in bianco e nero che ho poi visto invece testimoniano un massacro, 651mila soldati caduti, con i civili un milione e 240mila morti, solo in Italia. Ma non era finita. Sul Paese esausto si abbatté l’influenza Spagnola: tra i 300 e i 600mila morti. Il fante Ferdinando era tornato, ma chissà quanto si mangiava, in quella casa. Chissà, nell’epidemia, quanto buio doveva apparire il futuro. Si avvicinavano, in Emilia, i tempi rabbiosi degli scioperi dei mungitori, poi dell’avvento del fascismo. Eppure in quella casa come in mille altre si tirò avanti. Nacque un’altra bambina. Il figlio maggiore, su consiglio della sua maestra, lo si sarebbe fatto studiare. Risento la Canzone del Piave che mormorava «calmo e placido», il 24 maggio di oltre un secolo dopo, e lo confronto con oggi, 2020, anno inimmaginabile, annus horribilis che ha ribaltato il mondo. Niente però di paragonabile ai massacri di ragazzi di vent’anni sulle Dolomiti e nel Carso, ai carri dei feriti gementi che arrivavano a Firenze e che mi furono raccontati da un bambino di allora, il poeta Mario Luzi, che non li dimenticò più.

Non paragonabile con l’oggi nemmeno l’ecatombe della Spagnola, che mieteva soprattutto i giovani, e lasciava dietro di sé decine di migliaia di orfani. «15-18»: dentro due date una carneficina di giovani per la metà ancora analfabeti, e fame, e un’epidemia feroce. Eppure i sopravvissuti non si arresero. Con i figli non tornati nel cuore, e la paura di un nemico invisibile, ripresero a vivere, e a ricostruire. Non so quanto noi somigliamo a quella generazione, o se siamo stati troppo nutriti e vaccinati e curati fin da piccoli con antibiotici, per potere avere una simile cognizione del dolore. Che può farsi anche, una volta elaborato il lutto, propellente per ricostruire. Una cognizione della morte è stata però data in questi mesi anche a noi. Non come nel 15-18, ma significativa. Uno schiaffo che ci riconduce a noi stessi, a ciò che davvero siamo, sotto il rumore e le apparenze. Avere memoria, pensare a come reagirono degli italiani molto più poveri e incolti di noi bisognerebbe, per stabilire almeno delle proporzioni. Quegli italiani erano più ricchi di passione ideale, e di fede, di quanto lo siamo adesso. O forse era anche per i loro numerosi figli, che desideravano continuare questo Paese? Nel maggio 2020 si può, per il Covid, tremare e recriminare, o maledire, oppure abbozzare un paragone. Con quel remoto maggio, con quella strage. Pensando a come, però, i nostri vecchi se ne trassero poi faticosamente fuori, in un ostinato desiderio di vita.

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