Non «chi» decide ma «cosa» si decide
giovedì 26 aprile 2018

È giusto che sia dei genitori l’ultima parola sulla sorte dei propri figli, in vicende come quelle di Alfie Evans, e prima ancora, di Charlie Gard? Oppure è bene che, se genitori e medici sono in disaccordo, siano dei giudici a decidere? Sono queste le domande su cui si dibatte, in questi giorni drammatici per il piccolo Alfie.

Domande fuorvianti, a giudizio di chi scrive, alle quali, comunque, nel nostro Paese già è stata data una risposta, apparentemente analoga a quella inglese, in realtà sostanzialmente diversa. Prendiamo un caso di 'scuola': genitori testimoni di Geova che ricoverano un figlio, minore, rifiutando il consenso alle trasfusioni di sangue. La legge italiana, in queste situazioni, non rispetta la volontà dei genitori: su richiesta del medico, il minore viene preso in carico da un giudice che potrà dare il consenso ai trattamenti sanitari, trasfusioni comprese, a prescindere dalle richieste di padre e madre, che si vedranno 'restituire' giuridicamente loro figlio quando i dottori lo riterranno opportuno, in particolare quando non ci sarà più bisogno di trasfondere. Sia per l’Italia che per la Gran Bretagna, quindi, il figlio non è considerato una proprietà dei genitori, che non possono disporne completamente. E d’altra parte l’esistenza stessa di un Tribunale dei Minori lo sta a dimostrare: sono praticamente infiniti i contenziosi nei quali a prendere l’ultima decisione su un minore è lo Stato, mediante i giudici, anziché i genitori, che in molti casi addirittura vengono privati dei propri figli, perché riconosciuti inadatti ad occuparsene. E allora qual è la differenza con il sistema inglese? Il problema non si pone su 'chi' decide, ma su 'cosa' viene deciso. È evidente che in un contenzioso fra due parti – genitori e medici, ma anche due genitori uno contro l’altro – debba decidere un terzo applicando la legge, cioè un giudice.

Ma il problema si pone se quel giudice, e cioè lo Stato, è chiamato a decidere della vita o della morte di quel minore. Per Alfie i tribunali britannici sono stati chiamati a decidere se continuare a far vivere o lasciar morire un bambino. La giustizia si pone cioè la domanda su quale sia il massimo interesse del piccolo, a prescindere da chiunque altro, genitori compresi, ma fra le varie risposte è inclusa anche la morte, come se vivere o morire avessero lo stesso valore. Nel caso dei testimoni di Geova, per esempio, la ratio della legge italiana è che va tutelata la vita del bambino, e non la scelta dei genitori, a prescindere dalle loro motivazioni, perché vivere è meglio che morire. È il criterio del favor vitae , che viene invece a cadere quando si decide di tutelare la scelta (anziché la vita). Se fra le opzioni possibili c’è anche quella di morire, e ha pari valore delle altre, è ovvio che poi ci si chieda in quali condizioni sia opportuno vivere, e spunta il criterio di 'qualità di vita', per poter valutare se ne valga la pena. Come per Alfie, adesso, e per Charlie, prima, e per Isaiah, e Inés, tanto per nominare persone di cui 'Avvenire' si è purtroppo occupato nell’ultimo anno. È bene ricordare che non è più in gioco la sofferenza fisica, nel decidere: sappiamo che può essere sempre controllata, farmacologicamente o chirurgicamente. Se di sofferenza si tratta è quella stessa di vivere, perché certe esistenze sono considerate invivibili di per sé.

Come ha dichiarato ieri lady Justice King, durante la drammatica udienza per Alfie «[…] è improbabile che abbia dolore, ma tragicamente tutto ciò che potrebbe dargli un apprezzamento della vita è irrevocabilmente distrutto». E in nome di questo – cioè della sua dipendenza totale e della sua apparente incomunicabilità con l’esterno – il suo massimo interesse sarebbe morire. Tutta la nostra legge invece, finora, è stata orientata dal favor vitae . Basti pensare alla fattispecie del suicidio. Un eventuale sopravvissuto al suicidio non viene punito, come invece lo sono coloro che istigano o aiutano a togliersi la vita. Si è liberi di togliersi la vita, ma chi collabora in qualche modo è sanzionato perché il suicidio è un disvalore, sempre, anche quando è una decisione pienamente consapevole: noi non tuteliamo qualsiasi scelta, purché libera e informata, perché non tutte le scelte hanno valore. Il problema quindi si pone quando è possibile includere la morte nelle opzioni possibili. Chi sia poi a scegliere diventa un fatto secondario. Nel caso di Alfie la scelta è in capo allo Stato, che si sta arrogando il diritto di decidere di tutta la sua vita, compreso ospedale e medici curanti. Ma possiamo lasciare a qualcuno – Stato, giudici, medici, genitori, a questo punto è secondario – decidere della vita o della morte altrui?

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