lunedì 20 febbraio 2012
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​Il verde è la tinta predominante. Non un verde uniforme, monotono. C’è il colore intenso delle mangrovie, quello deciso dei muschi o quello cupo delle latifoglie. Un universo di sfumature cromatiche che si dilata per novecentomila ettari: l’equivalente di 900mila campi da calcio. Non stupisce che gli indigeni chiamassero quest’oceano di smeraldo nel cuore dell’Ecuador “la terra sacra” o Yasuní. E che il nome si sia conservato nel tempo, fino a diventare, dal 1979, la denominazione ufficiale del parco con la maggior biodiversità del pianeta: il Parque nacional Yasuní. Un forziere ecologico in cui sopravvivono 100mila specie di insetti, 600 di uccelli, 200 di mammiferi. E un mare di 655 tipi differenti di piante. Sotto cui, scorre un altro mare denso e scuro: un mega giacimento di petrolio che potrebbe fornire, nei prossimi 30 anni, 846 milioni di barili. Il condizionale è d’obbligo. Il greggio potrebbe anche restare sepolto nel ventre di Yasuní se il mondo deciderà di salvare la riserva. L’Ecuador, infatti, è disposto a rinunciare all’oro nero e a parte della ricchezza che deriverebbe dal suo sfruttamento. A condizione, però, che gli altri Paesi facciano la loro parte dato che salvare la riserva conviene a tutti. In termini di ossigeno prodotto. E di mancato inquinamento: l’atmosfera non verrà soffocata dai 407 milioni di tonnellate di anidride carbonica derivanti dalla trasformazione del greggio in carburante. Il principio di “emissione evitata” sta alla base dell’Iniziativa Yasuní ITT (dalle iniziali di Ishpingo, Tambococha e Tiputini, i tre campi petroliferi all’interno del parco). «È un’asta ecologica globale. Dall’obiettivo ambizioso: salvaguardare uno dei principali polmoni della terra», spiega ad Avvenire l’economista Riccardo Moro, coordinatore del progetto Bridges e al lavoro per la difesa di Yasuní. L’Ecuador si è impegnato a non trivellare se otterrà 3,5 miliardi di dollari nei prossimi tredici anni, al ritmo di 300 milioni all’anno. La metà – o anche molto meno se il prezzo dell’oro nero continuerà a lievitare – di quanto ricaverebbero dall’estrazione. Il resto lo metteranno le casse statali. La cifra raccolta verrà destinata a progetti per lo sviluppo sostenibile, la riforestazione e programmi sociali rivolti in particolare ai popoli indigeni waromani, tagaeri e taromenane, che abitano la “terra sacra”. «È la prima volta che un Paese lancia una “colletta ambientalista” su scala mondiale – aggiunge Moro –. Rivolta agli Stati ma pure ai cittadini del mondo». In Ecuador, uffici postali, comuni, bar, sedi di associazioni, parrocchie hanno già piazzato la cassetta per il “fondo Yasuní”. A novembre, la versione ecuadoriana di Telethon ha incassato 2,8 milioni di dollari dai telespettatori. Nei prossimi mesi si spera che la mobilitazione si diffonda anche all’estero. Dove, in realtà, l’interesse è ancora debole. In parte perché anche se è nata formalmente nel 2007 (ma i primi abbozzi risalgono al 2000), l’iniziativa – su c’è un ampio consenso delle principali forze politiche – è rimasta ferma fino al 2010. Quando il Fondo delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (Undp) ha preso in gestione – in accordo con Quito – la “cassa”, garantendo la trasparenza della raccolta. Il test ufficiale, però, il progetto l’ha superato solo ora con i primi incassi, provenienti soprattutto da Cile, Spagna e Germania. A permettere il raggiungimento della prima soglia di 100 milioni di dollari, è stata, tuttavia, l’Italia, che ne ha dati praticamente la metà. Impegnandosi a condonare a Quito il debito per un valore di 35 milioni di euro (circa 50 milioni di dollari). Certo, il traguardo dei 3.5 miliardi è ancora lontano. Il conto alla rovescia è appena cominciato. Per capire che cosa c’è in gioco basta superare i confini del Parco: qui giganti di ferro perforano senza sosta per estrarre il greggio. Che zampilla e avvolge, col suo nero deciso, il verde sempre più rado, da quando il boom petrolifero degli anni Cinquanta segnò il destino del Paese. A pochi passi, la bellezza ancestrale di Yasuní testimonia che forse ora un’altra strada, e un altro modello di sviluppo, sono possibili.
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