venerdì 10 maggio 2024
Secondo Human Rights Watch, i paramilitari delle Forze di supporto rapido, aiutati dalla Russia, hanno attaccato per mesi i Masalit per cacciarli dalla regione, uccidendo migliaia di civili inermi
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Tornano pulizia etnica, massacri e stupri nel Darfur occidentale, in Sudan, 20 anni dopo il genocidio. Le vittime sono civili inermi, migliaia di uomini, donne, bambini, anziani e malati con l’unica colpa di essere Masalit, etnia presa di mira senza pietà dai paramilitari sudanesi delle Forze di supporto rapido.

La denuncia, corredata da 220 testimonianze di superstiti scampati alle stragi, è stata presentata ieri da Human Rights Watch e accende i riflettori su migliaia d i morti assassinati nelle strade di El Geneina, capitale dello Stato del Darfur occidentale, e poi sulla via che porta verso il Ciad dove le colonne di profughi stavano fuggendo. Secondo l’autorevole organizzazione, responsabili delle atrocità sono i paramilitari sudanesi e le milizie arabofone loro alleate, che hanno provocato centinaia di migliaia di sfollati uccidendo civili inermi Masalit, etnia non araba di origine nordafricana, in quel conflitto civile scoppiata ad aprile 2023 che è la più cruenta tra le guerre dimenticate.

L’accusa è corredata dalle prove degli orrendi crimini di guerra e contro l’umanità commessi dagli stessi criminali che 20 anni fa, con il nome di janjaweed, diavoli, commisero un genocidio nel Darfur, costato all’ex presidente sudanese Omar el-Bashir la condanna della Corte penale internazionali. I ricercatori hanno rilevato e analizzato più di 120 foto e video, immagini satellitari e documenti condivisi dalle organizzazioni umanitarie per trovare le prove.

I fatti esaminati nelle indagini di Human Rights Watch risalgono al periodo che va da aprile al novembre 2023. Il report, “I Massalit non torneranno a casa” sostiene che le Forze di supporto rapido – in conflitto dall’aprile 2023 con l’esercito regolare del leader golpista Abdel Fattah al-Burhan – e sostenute dai mercenari russi dell’ex Wagner corporation (ora Africa corps) e le milizie loro alleate hanno preso di mira i Massalit con «incessanti ondate di attacchi» iniziati poco dopo l’avvio dei combattimenti contro l’esercito sudanese a Khartum, capitale del Sudan, fino a giugno. Violenze riprese a novembre con torture, stupri e saccheggi che hanno messo in fuga 500 mila profughi verso il Ciad.

I responsabili sarebbero il leader dei paramilitari Mohammed “Hemetti” Dagalo e suo fratello Abdel. «Le atrocità su larga scala commesse nella città sono un promemoria di ciò che potrebbe ripetersi in assenza di un’azione concertata – sostiene Tirana Hassan, direttrice esecutiva di Human Rights Watch – ed è ora che i governi, l’Unione Africana e Onu agiscano per proteggere i civili e supportare le indagini della Corte penale internazionale ». Secondo il report, gli attacchi contro i Massalit e altre comunità non arabe avevano l’obiettivo di cacciarli permanentemente dalla regione. Un livello di orrore superiore alla pulizia etnica. «Il particolare contesto in cui gli omicidi su larga scala hanno avuto luogo indica la possibilità – si legge - che le Forze di supporto rapido e i loro alleati avessero l’intento di distruggere le popolazioni del Darfur occidentale. Un genocidio potrebbe essere stato commesso o essere in atto».

Il rapporto documenta ad esempio il massacro del 15 giugno 2023 quando paramilitari sudanesi e le milizie loro alleate aprirono il fuoco su un convoglio di civili in fuga: uomini donne e bambini che correvano o cercavano di nuotare nel fiume Kajja dove molti sono poi annegati. Dagalo intanto ha accusato i tigrini del Tplf di aver agito in Sudan insieme all’esercito regolare. Secca la smentita del capo dell’amministrazione ad interim del Tigrai Getachew Reda, che ha ricordato che i campi Onu in Sudan ospitano profughi tigrini ora messi in pericolo da tali dichiarazioni. E a sua volta Getachew ha accusato gli Emirati arabi uniti di sostenere Etiopia e paramilitari sudanesi allo scopo di sabotare l’accordo di pace di Pretoria tra Addis Abeba e Macallè e la pace in Sudan.

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